Un verbo che esplicita il mondo del fuoco che arde ed infiamma la via delle emozioni è: sedurre. Un verbo questo, che conduce l’individuo ad incamminarsi nella via della perdizione, della tentazione, ad essere attratto dalle spire della fascinazione e della malia.
Se vi è un’azione seduttiva vi è certamente un carnefice ed una vittima. La femme fatale incarna l’archetipo della seduzione, la sua figura oscilla tra la strategia e l’animalità dirompente che incenerisce le regole e divora l’uomo. Ella non è altro che l’incarnazione delle pulsioni erotiche represse, dei conflitti generati dai tabù che, governando azioni e stati d’animo, rendono l’uomo un fantoccio in balia della propria parte più oscura. Nel sacro pantheon del cinema, fin dalla sua nascita, troviamo molte dive che hanno incarnato a pieno questo ruolo. Tra le prime del cinema muto ricordiamo Theda Bara – ovvero “morte araba”- già nel significato del suo nome è impresso il suo destino interpretativo; viene acclamata per la sua bellezza esotica che si tinge di colori oscuri, che strega per la sua conturbante gestualità. Non poteva che interpretare ruoli come la Vampira, Cleopatra, Salomè, Carmen, la zingara Esmeralda, un universo femminile che ha come unico dictat: l’amore è seduzione, passione deflagrante avvolta da un palpabile erotismo. In ogni pellicola grazie alla sua presenza e al suo simulacrale look innescava un rituale in cui la vittima veniva sottoposta ad un irreversibile sacrificio, ed anche lo spettatore rimaneva impigliato in quest’ordito sovra sensuale.
Su questa scia, sempre negli anni 20 tra le dive del cinema muto fa la sua apparizione Luise Brook che diventa famosa grazie a Lulu, film ispirato ad un opera drammaturgica di Wedekind, firmato dal regista Pabst. E’ la donna-belva, la donna-demoniaca, è la manifestazione di una forza eterna di vita e di morte. La girandola degli uomini che vengono soggiogati dalla sua malia la vedono ora come un angelo ora come una creatura degli inferi. E’ la donna fato, così Maurizio Grande nella sua opera Dodici donne. Figure del destino nella letteratura drammatica, la dipinge: “glaciale elettride, Lulù non intesse la vita dell’altro come opus femminile, né si pone come vindice della natura imprigionata nel sistema dei segni maschili si limita ad inoculare nelle sue vittime il secretum della bellezza che rende insonni, i sensi sono spalancati sull’abisso di una passione insaziabile”. Pabst sceglie Luise Brook perché vede nel suo volto incorniciato da quel taglio corvino alla maschietto, l’ingenuità e l’infantilismo e nel suo corpo la personificazione di una sensualità primitiva che ispira il “male”.
Il mito della femme fatale in Italia in quel periodo d’oro del cinema muto è incarnata da Pina Menichelli che interpreta il film Fiamma (1915) diretto da Pastrone che usò uno psudonimo per l’occasione Piero Fosco. La donna-gufo che irretisce la sua vittima con lo sguardo in cui si scrive il perverso gioco al rialzo tra grazia e violenza, il duello di un enigma che è il disvelamento di una fiamma che si eleva in alto, e che poi dura solo un attimo. Vince la donna che gira le spalle e il suo amante è distrutto dalla follia, perso nella voragine al buio.
Il potere della seduzione è la rivelazione della sessualità libera. Non c’è il tempo della seduzione, né il tempo per la seduzione: essa ha un suo ritmo, senza il quale non ha luogo. Il ritmo dell’attrazione fatale è il segno che connota la bellezza dalle sfumature enigmatiche di Marlene Dietrich che viene sottolineata dal genio di Sternberg, piena di sottintesi imprevedibili, morbida e perversa, fatale così come i ruoli che per lui ha interpretato: in Marocco 1930, è una donna che apparentemente si sottomette all’amore, pur trattandosi una cantante che si esibisce in un locale; in Disonorata 1931, è una prostituta; in Shanghai Exspress 1932, è un’attrice di varietà e prostituta d’alto bordo, in Venere Bionda 1932, ritorna ad interpretare il ruolo di una cantante, è una cinica e dura donna di stato nell’Imperatrice Cristina 1934, in Capriccio Spagnolo 1935, è una fascinosa e dissoluta sigaraia sevigliana.
Le traiettorie del desiderio tracciate nel registro della finzione amorosa che accende fiamme che invadono e imprigionano i cuori e l’anima sono pienamente rappresentate nell’Angelo Azzurro dal personaggio che ha fatto si che Marlene divenisse Diva, Lola Lola. Ramperti nel L’Alfabeto delle stelle dedica alla sua malia queste parole: “Essa è il peccato. E’ la mala sorte. E’ la vendicatrice della sua razza. E’ l’Eva del serpente rinata da Versailles; Giuditta alla riscossa…- e ancora … La voce è rauca e piena, come quella dei felini, di un presentimento di graffi mortali. La voce sa d’anima rubata e di risvegli colpevoli. E i suoi occhi che si ritraggono, chiamando! Che fuggono trafiggendo come i Parti! Che si accendono e s’annientano, fuochi di sepoltura, attirando verso la notte! … E le sue gambe gloriose! Le sue gambe dannate! Dalla caviglia al poplite, e da questo all’anfora delle reni, quelle gambe formano una sinfonia in due tempi, le cui ellissi si perdono all’infinito …”
Marlene incarna quindi uno spirito seduttivo che ha le proprie regole, è un’esistenza altalenante tra il logos e l’eros. L’attore Jean Gabin forse ha fatto il ritratto più giusto del complesso universo d’amore incarnato dalla Diva: “.. il suo fascino, il fascino che ci ha avvinto per mezzo secolo, non può essere descritto; può essere solo sperimentato. E’ un eccitante, provocante, elettrica realtà del nostro tempo, una donna che ha vissuto pienamente la sua vita …”
Ad Hollywood si avvicendavano dive che rappresentavano sempre e comunque un immaginario femminile che doveva provocare un’emulante eccitazione ed ecco che fa la propria apparizione nello Star System Greta Garbo: la sfinge, “l’Arcimaga”, “lirica della donna”. Ella è fascino sublime che incanta, magnetizza a dispetto di un corpo androgino. Si guadagnò l’etichetta di femme fatale grazie ai film La tentatrice del 1926 di Fred Niblo, La carne e il diavolo del 1927 di Clarens Brown, Orchidea selvaggia del 1929 di Sidney Franklin, sempre dello stesso anno Il bacio di Jacques Feyder. Fu la Regina Cristina nella pellicola diretta di Mamoulian. E’ una cortigiana in Camille del 1936 di Cukor. Donne che vivono amori non convenzionali, che bruciano di passione, che esigono supremi sacrifici così come Mata Hari. In questo ruolo troviamo una Garbo che dona un ritratto di questa spia veramente esistita che valica l’illusione di un sogno per restituire energia del desiderio. L’epifania della seduzione si compie nelle danze rituali che Mata Hari- Garbo esegue ogni sera offrendo alla platea il fuoco dell’oriente. Il corpo della danzatrice diventa metafora di godimento voyeuristico, di destino di amore e morte.
Il sortilegio della Femme Fatale quindi è la sua capacità di concedere con la sua presenza-assenza l’immediatezza di un segno che rende superflue alle volte le parole, è l’esplosione per dirla con Baudrillard di una tattilità di sguardi in cui si concentra tutta la sostanza virtuale dei corpi (del loro desiderio?) in un istante sottile. L’elemento preponderante di un’azione di una donna che conosce l’incantesimo della seduzione è
certamente il fuoco in virtù del quale si attiva un viaggio iniziatico nei meandri e nei registri dell’Eros, dell’Amore che tesse un segreto, nella sublime declinazione della Bellezza.
“O bellezza, tu incedi sui morti sorridente: non è l’Orrore il meno vago dei tuoi monili sul tuo superbo grembo danza amorosamente l’Omicidio, confuso ai ciondoli gentili.
Alla tua fiamma vola l’effimera abbagliata, crepita, brucia e dice: “O face benedetta!” L’innamorato chino sulla dolce amata pare che blandisca morente la tomba che l’aspetta.” (Inno alla bellezza – da I Fiori del Male, Charles Baudelaire)
Maria Angela D’Agostaro