Cosa è la Magia? Se cerchiamo in un qualunque vocabolario possiamo leggere la seguente definizione: · 1 Arte e pratica che si servono di fenomeni paranormali e occulti per agire sugli individui e sulla natura in genere SIN incantesimo || m. nera, effettuata con intenzioni malefiche e dannose nei confronti di qlcu. o qlco. | m. bianca, effettuata con intenzioni benefiche. · 2 fig. Capacità di attrarre SIN fascino.
La fascinazione della Sapienza magica ha accompagnato da sempre il cammino dell’individuo, ha scandito la ritualità del quotidiano là dove ancora vigeva un completo amalgamarsi con i fenomeni che offre la Natura e l’Universo. La Magia si è celata dietro i volti di Sacerdoti e Sacerdotesse, di Dei, di Maghi e Maghe e/o Streghe e Stregoni. Pochi erano gli eletti/iniziati che per doti straordinarie o divine potevano accedere nel cerchio di fuoco e vivere di Magia affidandosi a Spiriti guida ora animali, ora elementali ( ondine, silfidi, salamandre, gnomi e fate), ora scintille Superiori appartenenti al sacro Empireo.
La magia ha cavalcato il tempo e lo spazio ed ogni popolo sulla terra, ha creato la propria lingua Tradizionale, ha edificato i luoghi di culto, ha dato vita alla Parola Sacra visibile e invisibile, Segni e Simboli hanno lasciato tracce indelebili su differenti supporti e materie. La Sapienza rimane per pochi anche se in ciascuno di noi alberga la Luce che lotta eternamente con l’Ombra / Male.
La Magia è stata confusa con la superstizione, ingabbiata e in nome di un qualunque Dio è stata bandita o irrorata di sangue. Donne/Streghe/ Guaritrici sono state uccise, messe a rogo, torturate, vessate, relegate al silenzio, negate, sol perché capaci di comunicare con i grandi culti del Sole e della Luna, della Grande Madre.
La Magia è stata depauperata dalle costellazioni di gruppi e sette segrete di un elemento essenziale e Antico, la funzione della Donna il suo sacro fuoco principio maschile che vive in lei in maniera naturale.
La Via Spirituale è un cammino straordinario a cui tutti possiamo accedere se non vogliamo rimanere dei dormienti, ed allo stesso tempo è per pochi. Oggi se andiamo in qualunque libreria troviamo testi che hanno per oggetto la Magia in tutte le sue sfaccettature, manuali su filtri, sulla chiromanzia, astrologia, cartomanzia, sugli angeli, sugli spiriti guida, sui rituali magici appartenenti alle differenti tradizioni e relativi Maestri.
Il testo Indagine sulla Magia scritto da Giuseppe Mirisola, edito da Lanterna Magica con una colta introduzione dal taglio antropologico scritta da Claudio Paterna, vuole essere un viaggio teorico-pratico che utilizza un linguaggio semplice per dare delle indicazioni a chi si vuole avvicinare alla Wicca e al mondo dell’invisibile. Il nostro autore dopo un lungo studio raccoglie e descrive poi donandoli al lettore una serie di strumenti che servono per agire con Magia, non dimenticando un assunto che più volte sottolinea “ l’unione gioiosa con la Natura. La terra è una manifestazione dell’energia divina … La magia nella Wicca è tutto ciò che ci circonda … La vera magia di un wiccan sta nel tipo di rapporto che egli instaura con se stesso, con la natura e con gli altri … non fa altro che creare dentro e fuori di sé dei movimenti di energia positiva tramite la meditazione e il contatto con la natura per influenzare positivamente la vita che lo circonda …”
Mirisola, pur scrivendo sui lati positivi della Wicca che ritiene una delle prime possibili vie da percorrere per coloro che si avvicinano a questo mondo, è un attento studioso e ricercatore e nel tempo ha acquisito una visione sincretica della realtà magica: ogni via se percorsa con un intento puro, sospinta dall’energia che è dentro e fuori di noi, può condurre l’individuo che pratica l’incantesimo ad attuare ciò che desidera, ad ampliare il proprio sentire ed ottenere quelle chiavi della conoscenza per vedere oltre. La ritualità, la forza della parola non hanno una connotazione appartenente o specifica di una religione monoteista come quella cristiana o politeista come quella neopagana, essa è potere in virtù dell’impronta energetica che dà l’individuo uomo o donna che sia, strega o stregone. Si possono usare diversi strumenti per attirare e dialogare con le energie: bacchette magiche, incensi, carte, rune il tutto nel rispetto di un rituale che segue un percorso preciso illuminato dalle cadenze annuali del Tempo, evocando a sé le forze dei quattro elementi sotto l’egira di Luna e Sole, ringraziando per ciò che si chiede o si ottiene.
Mirisola a cuore aperto offre al lettore la sua conoscenza ed esperienza, infatti nell’ultima parte raccoglie delle interviste fatte a persone che si occupano di Magia o che si sono avvicinate ad essa.
Il filo conduttore del libro rimane un profondo rispetto per ciò che è e sempre sarà, ogni cosa, essere vivente è intriso di immanente energia che aspetta di essere accolta, il Secretum è uno scrigno prezioso che vive come fiamma in ciascuno per alimentarla ci vuole Luce e Amore al di là delle differenti tradizioni la “Via è Una/O” come più volte ha sottolineato l’Autore in conversazioni che ho avuto il piacere di avere con lui.
Maria Angela D’Agostaro
“Siamo noi l’artefatto di noi stessi e l’inganno sono le nostre identità costruite davanti allo specchio. Quindi alla base di ogni travestimento, o camuffamento, o vestizione, vi è l’attivazione di una pulsione scopica desiderante retaggio dell’androgino. Lo specchio come immagine speculare per la formazione della nostra immagine. L’Io non è una componente scevra da ogni inganno e manipolazione che viene dall’esterno. L’Io è l’insieme di parti che stanno dentro e fuori, poiché l’Io si esalta e si abbatte in una continua evoluzione e non si mostra mai reale, neanche davanti allo specchio.”
Mi sono permessa di autocitarmi estrapolando un passo della mia tesi di laurea “Lo specchio e l’inganno” scritta nel 2007 con la supervisione di Maria Angela D’agostaro, che svolgeva il ruolo del tutor ma che in realtà collaborò pienamente alla ricerca sul tema.
Quando si parla di specchi e di identità a me torna sempre in mente quel lavoro, e prima di iniziare a scrivere l’articolo decisi di andarla a riesumare fra i ricordi nascosti che custodisce gelosamente mia madre, come se fosse quella la sostanza del mio Io per lei. L’argomento della tesi era “Il costume nel cinema”, materia trattata dalla professoressa D’agostaro e ripercorreva un volo di secoli che andava dal Simposio di Platone con il mito dell’Androgino alle raffigurazioni cinematografiche che avevano preso in esame lo sguardo dentro lo specchio, attraversando l’uso del mascheramento tramite il costume e la psicologia del travestimento. Fu un grande lavoro perché ai tempi la mia immagine nello specchio era integra e incapace di spezzettarsi capendo le dinamiche di quello che è lo sgretolamento dell’Io.
Perché dovrebbe esistere un inganno davanti allo specchio? Perché l’uomo non è se stesso quando si riflette? Ma soprattutto, perché l’uomo cerca un confronto con se stesso? Le domande sembrano avere delle facili risposte e partono dal principio che non siamo soli e che dobbiamo sempre metterci a confronto con qualcosa, e per primi con noi stessi che siamo il risultato di ciò che viene dall’esterno. Sembrerebbe che la perdita di identità pura l’abbiamo dall’inizio della nostra vita già con il contatto della madre vista come colei che chiede e pretende e ci indirizza verso una vita da percorrere. E poi vi sono i traumi, quelli che subiamo, che ci accompagnano, che ci sfigurano, che si riflettono fuori e dentro di noi. Così è sempre una maschera quella che vediamo riflessa nello specchio. Una maschera che molte volte abbiamo costruito come una nuova pelle del ricordo. Il nostro volto riflesso è l’insieme di pensieri positivi e negativi, vi sono i complimenti esterni che riecheggiano quando il colore di un rossetto è uno piuttosto che un altro. Ci sono gli occhi che indicano il vostro umore, c’è il naso a ricordarvi che respirate e che siete vivi, c’è la bocca capace di parlare e di dire “Io esisto”, ci sono i capelli appuntati come la moda vi ha suggerito. E poi, per ogni individuo, ci sono le particolarità quelle che raccontano una storia; le cicatrici, le bruciature, i resti della vostra adolescenza, le rughe: quelle d’espressione perché avete pianto o riso molto, e quelle del tempo che non è gentile con nessuno di noi. Ogni giorno riflettersi è una scoperta nuova, un nuovo quadro che ogni tanto piace e ogni tanto disturba. Ogni giorno i nostri occhi si incontrano con i nostri occhi e si fanno forza, due guarderanno il mondo che li circonda e due guarderanno solo il ricordo del mondo che hanno vissuto prima. Due occhi che giudicano prima loro e poi il loro riflesso, che non smettono mai perché sono incapaci di focalizzare quello che c’è dietro quell’immagine nello specchio, non vedono la stanza, perché quella fa paura, quella rappresenta il vuoto da riempire del mondo che non conosciamo. Ecco come prende il sopravvento l’Io, l’immagine che guarda se stessa e annulla tutto ciò che la circonda intraprendendo un percorso semplice e blindato dove si sta comodi poiché il corpo supplisce alla mente e al cuore.
Siddharta riflettendosi tirò fuori dallo specchio d’acqua la sua essenza porgendogli una mano e furono due corpi, uno davanti all’altro che parlarono e scoprirono il bene e il male. Narciso fece di sé un doppio sé aumentando il suo ego e quel suo riflettersi costantemente nell’acqua, quell’immagine che lo rendeva pieno e vivo, quell’immagine costruita sul mito del bello, del puro, del limpido fu tutto quello che ne rimase. Se quell’acqua invece l’avesse frantumata buttandosi dentro avrebbe scoperto una bellezza più grande, il suo respiro, quello che non esiste quando l’acqua ti avvolge e non ti puoi aggrappare all’immagine che si è costruita, ma puoi solo affidarsi alla vita e alla natura che combattono per farci sopravvivere, perché fuori dallo specchio noi siamo la somma delle parti, ma dentro lo specchio, immersi nell’acqua, noi siamo un unicum che non ha bisogno di parti ma solo di echi di vita.
Maddalena Inglese
Leggere Lolita a Teheran non è solamente un libro, un best-seller scritto con semplicità e con uno stile eccellente che ti catapulta direttamente nell’Iran degli anni ’80. È, soprattutto, un’esperienza, un affresco di piccole ribellioni, un arazzo di sensazioni che travolgono il lettore.
Specialmente in questo periodo in cui l’Islam è, nel bene e nel male, spesso al centro della discussione, la lettura di questo libro dovrebbe essere quasi obbligatoria. Ci ricorda, in un momento sociopolitico in cui molti sembrano dimenticare che tutti gli esseri umani sono simili, come tutti possano trovare un filo conduttore che ci unisce, al di là del credo religioso, dell’orientamento politico o del luogo di nascita. Il filo conduttore, in questo caso, è la letteratura.
Azar Nafisi, la donna che ha scritto questo attestato d’amore per la letteratura, era – ed è tutt’ora, sebbene altrove – un’insegnante. Un’insegnante di Letteratura Inglese, donna a Teheran, nel pieno della rivoluzione islamica. In sé raccoglieva quindi molti degli elementi che i sedicenti rivoluzionari volevano sopprimere. Ha avuto quindi un punto di vista purtroppo “privilegiato” nell’osservare e poter raccontare molte delle soppressioni che il nuovo governo quotidianamente faceva subire al suo popolo, e ce le racconta attraverso lo specchio perspicace dei libri che faceva studiare ai suoi allievi.
In Leggere Lolita a Teheran Azar Nafisi ripercorre disordinatamente il suo periodo di insegnamento universitario, man mano sempre più ostacolato da nuovi divieti, da studenti convinti che tutto ciò che proviene dall’occidente sia satanico e da movimenti rivoluzionari via via più aggressivi. Poi la guerra con l’Iraq, spaventosa, distruttiva e terrorizzante, l’abbandono dell’insegnamento pur di non indossare il chador, l’accettazione di qualche compromesso pur di riprendere ad insegnare e la nuova, definitiva – per quanto riguarda Teheran – rinuncia alla docenza.
Fu a questo punto, nel 1995, che dette via al progetto che è anche l’anima stessa del libro: raccogliere intorno a sé sette studentesse, notate durante le lezioni, e tenere con loro delle lezioni/discussioni private sulla letteratura. Le sette studentesse non hanno quasi nulla in comune, eccetto l’amore per i romanzi che si ritroveranno a leggere e commentare insieme nei due anni successivi, una volta a settimana. Vanno dalla fondamentalista religiosa alla ribelle dichiarata, ognuna con proprie esperienze, virtù, difetti e i “classici” problemi nella vita quotidiana di una donna in un paese che cerca di togliere alle donne ogni libertà acquisita nel corso dei secoli.
Il libro è diviso in quattro capitoli più l’epilogo, ognuno dei quali intitolati ad un’opera o un autore letterario: Lolita, Gatsby, James e Austen. Attraverso queste opere e molte altre, Azar ci racconta la sua quotidianità, le sue esperienze, i suoi pareri e, in poche parole, la sua vita.
La letteratura, per cui sia l’autrice che le sue sette ragazze nutrono un profondo rispetto e amore che le unisce al di là delle differenze e delle esperienze personali, viene usata come specchio della realtà. Si potrebbe pensare che sia uno specchio deformante, visto che vengono usati autori e contesti stranieri all’interno di un’esperienza culturale intima del proprio paese, ma proprio per questa differenza, proprio per la lontananza dei contenuti dei libri dalla quotidianità degli studenti, la letteratura, in questo contesto, mantiene la sua forma più pura di specchio rivelatore.
Quasi a volerci indirettamente confermare questo aspetto della letteratura nel loro soggiorno ritirato dal mondo, Azar ci racconta di come scorgesse il meraviglioso panorama: “Dal nostro appartamento al secondo piano […] si vedevano i rami più alti di un albero dalla folta chioma e in lontananza, al di là dei tetti, i monti Elburz. […] Dalla mia poltrona le montagne non si vedevano, però le loro cime, incappucciate di neve anche d’estate, e gli alberi che cambiavano colore con le stagioni si riflettevano nello specchio ovale appeso alla parete di fronte.” Allo stesso modo, in quella stanza privata, la letteratura è uno specchio che gli permette allo stesso tempo di vedere un mondo lontano, un panorama diverso dal loro quotidiano, ma anche di scorgere meglio quanto le circonda, con la sua luce e oscurità.
Ripercorrere passo passo le esperienze di Nafisi richiederebbe quasi l’intera trasposizione del suo libro. Diremo solo che con la sua mano leggera, quasi poetica, lei attraversa guerre e rivoluzioni, morti e sconfitte, lotte, punizioni e dettagli della vita quotidiana di una donna indipendente facendole sembrare insieme orribili e paurose, ma anche forti e delicate.
Queste otto donne, con il loro cerchio di amicizie, conoscenze, famiglie e quant’altro, hanno dovuto attraversare un momento di profondo mutamento sociopolitico del proprio paese. Un mutamento che le voleva ridurre a camminare a testa bassa, timorose di quanto le circondava, e che eppure hanno attraversato restando sé stesse, nonostante le percosse ricevute in più di un’occasione.
Ma, come dice l’autrice stessa, “Era come se la situazione politica avesse divorato tutto. Tutto, tranne la letteratura”. Alla fine di tutto resta sempre la parola scritta a rivelare il bene e il male del mondo che ci circonda, come uno specchio capace di mostrare impietosamente anche le più piccole imperfezioni insieme ad un sorriso abbagliante che non svanisce nell’oscurità che ci circonda.
Questo, per me, è stato il significato più puro di questo libro: raccontare come la letteratura ha aiutato tante persone, permettendo loro di specchiarsi in un mondo diverso, trasformandosi esso stesso in uno specchio per analizzare la società moderna ancora oggi, a vent’anni di distanza.
Carmen Brucato
Stephen King è uno di quegli scrittori da cui è quasi impossibile riuscire a sfuggire. Se si bazzica ogni tanto in libreria, sarà capitato almeno una volta di imbattersi nelle pile di libri dell’ultima pubblicazione del prolifico autore. Se piacciono i film, sarà capitato di vederne almeno uno tratto da qualche suo libro. Ultimamente anche il mondo delle graphic novel e dei telefilm non è sfuggito dalla penna del Re del Terrore, rendendo incredibilmente difficile non imbattersi in lui.
Mentre in America è già uscita la raccolta di racconti “The bazaar of bad dreams”, che vedremo nelle nostre librerie solo nel 2016, lo scorso settembre King è tornato nelle librerie italiane con “Chi perde paga” (Finders Keepers nell’originale), secondo volume della trilogia a tinte gialle del Re, che per una volta dismette i panni del maestro del brivido per dedicarsi al genere hard boiled, un poliziesco nudo e crudo.
Se nel primo volume, Mr. Mercedes, Stephen King non era riuscito a convincermi del tutto, pur gestendo in maniera magistrale una storia lontana anni luce dai suoi soliti intrecci, in questo secondo volume mi ha definitivamente conquistata.
Questo libro si può tranquillamente definire il volume dei ritorni. Non solo ritornano alcuni dei personaggi che avevamo imparato ad amare ed odiare nel primo volume, ma il ritorno delle cose, l’eco che si sviluppa tra le diverse epoche di questa storia, inanella gli eventi che porteranno alla conclusione, è la vera protagonista.
Questa vicenda non è iniziata con il ritrovamento di un baule, ma con l’uomo che l’ha sepolto, ci dice uno dei protagonisti, Bill Hodges, alla conclusione del libro. Infatti la storia si svolge, nella sua prima metà, in un parallelo tra il passato – dal 1978 in poi – al presente – tra gli anni 2009/2014 – in cui indizi, oggetti e parole intrecciano legami tra persone distanti decenni intessendo un’eco di pensieri ed emozioni. Legame indissolubile che unisce personaggi altrimenti distanti anni luce tra loro è dato dalla vera protagonista di questa storia: la letteratura.
Ed è anche per questo motivo che “Chi perde paga” è un libro di ritorni: Stephen King, a distanza di 27 anni da Misery – conosciuto dal grande pubblico grazie al film “Misery non deve morire” – propone un tema a lui probabilmente vicino e caro: il lettore che si erge a giudice sull’autore.
Se in Misery avevamo una folle infermiera che, trovato e fatto prigioniero il suo scrittore preferito, lo costringeva a scrivere il ritorno della protagonista dei suoi romanzi, in Chi perde paga un pazzo adolescente decide, nel 1978, di giustiziare il proprio scrittore preferito, reo di aver reso “un venduto” il suo personaggio letterario più amato. Sebbene la trama sia differente sotto qualsiasi altro punto di vista, è proprio la capacità – o più probabilmente, in questo caso, l’incapacità – del lettore di giudicare a pieno l’operato di uno scrittore, una delle protagoniste di entrambi i romanzi di Stephen King.
In Chi perde paga, quindi, vediamo le vicende di due giovani: nel 1978 il ventenne Morris Bellamy che, come detto sopra, in un impeto di odio uccide l’autore del suo libro preferito, ne ruba gli scritti inediti, i soldi e li seppellisce, prima di finire in galera; nel 2009, invece, conosciamo il dodicenne Peter Saubers, che, dopo aver assistito impotente alla distruzione economica e morale della famiglia ad opera prima dalla crisi e infine dal tragico incidente del padre, ritrova il baule, usando i soldi per mantenere la famiglia e leggendo i manoscritti originali, scoprendo l’amore per la letteratura.
L’eco che si sviluppa tra i due personaggi, che si muovono su binari paralleli ma distanti, è evidente quasi fin da subito: pur essendo uno folle e malvagio e l’altro generoso e gentile, entrambi sviluppano un morboso attaccamento non solo nei confronti del protagonista del libro, ma anche della stessa opera letteraria, arrivando a considerarsene quasi gli unici veri amanti e i proprietari di diritto. È questo morboso attaccamento che, solo nel 2014, porterà i due infine ad incontrarsi e scontrarsi.
In questo libro Stephen King ha dato il meglio di sé, intessendo una trama interessante e appassionante, condendola con il suo stesso amore per la letteratura che, pur nella follia dei protagonisti, riesce a donare un vago tocco poetico all’opera.
Attendiamo con impazienza il terzo volume della trilogia, in cui tutte le fila lasciate in sospeso nei due volumi arriveranno alla loro conclusione.
Carmen Brucato
Il 16 Novembre 2015 si è tenuto al Teatro Biondo di Palermo il primo concento in teatro dei Verdena, dopo 16 anni di onorata carriera. Una proposta innovativa per la città in cui vivo e anche per il gruppo entusiasta nel fare una nuova esperienza. Il Biondo, dallo scorso anno si era già lanciato nella proposta di una sua stagione musicale, ma questa non aveva mai previsto un concerto che urlasse volumi altissimi e un genere di musica che ti vieta di stare comodamente seduto sul velluto rosso perché ogni colpo di batteria ti sconquassa tanto da evitarti di stare fermo.
Così fra uno Stabile disposto a scommettere e una città che non offre luoghi adatti per questo genere di concerti è arrivato il compromesso e la fusione. Il teatro si svecchia e accetta qualcosa che suona troppo nord europeo per il sud dell’Italia. Le critiche sono state fortissime prima dell’evento: il luogo è ritenuto poco adatto ad accogliere un impianto tecnico acustico che potesse suonare bene fra i palchetti della struttura all’italiana. Eppure ieri sera la magia è avvenuta. I Verdena sono saliti sul palco e hanno reso lo stile liberty dei nostri amati Florio contemporaneo. Hanno inoltre regalato una scaletta piena di sorprese ai fans proponendo un viaggio lungo tutta la loro carriera, visto che Palermo non li ha potuti sempre accogliere in questi anni.
800 persone vivevano lo stesso momento cantando a squarciagola, muovendo le teste all’unisono rimanendo educatamente seduti ai loro posti e apprezzando lo spettacolo dalle linde sonorità che l’acustica del teatro gli regalava. 800 ragazzi uniti dalla musica, dal desiderio di vedere live la riproposizione di brani che li hanno accompagnati nella loro vita. Io che con i Verdena ci sono cresciuta mi sentivo emozionata nel ripercorrere con le loro note il diario della mia vita. Eppure ieri sera il pensiero di essere dentro una rete nord europea con un teatro che diventa luogo di aggregazione giovanile per un attimo mi ha fatta tremare. Forse l’idea di essere nei soliti posti mi avrebbe coccolata di più, con un massimo di 300 persone con cui condividere un momento, con l’aria piena di fumo, un’acustica pessima ma lontano dai riflettori. Un pensiero è andato a quel teatro che Venerdì 13 Novembre a Parigi proponeva la stessa situazione, dei giovani uniti ad ascoltare musica e a cui è stato violato il loro spazio. Un pensiero intriso di terrore mi ha pervaso; ho guardato le uscite di sicurezza, ho guardato i miei compagni di viaggio a cui era passato lo stesso pensiero per la testa, e ho meditato su quella fatale sera, quando davanti al televisore il fiato mi si era bloccato immedesimandomi sull’atroce realtà che stavano vivendo le vittime dell’attacco, in quel momento ero là incredula, avvolta dallo smarrimento e dalla paura, colpita dalla morte.
Non è di politica che ora voglio parlare e forse neanche del concerto di ieri sera, ma del ricordo che mi porterò dentro, di quella sensazione di bellezza che mi ha fatto passare una serata piacevole e di quell’amaro che aleggiava nel mio palato, quella nota stonata di vite spezzate, quella rabbia che agisce e non si ferma davanti all’innocenza, quel malessere che non riesce a curarsi perché in cancrena dentro una società che non ascolta più i diritti ma processa doveri. È un mondo che sente il cuore grazie al rullante di una batteria e, non sapendo contenere l’entusiasmo di quella nuova emozione, salta delirante in preda all’euforia. Credo che sia una bella responsabilità curarsi del piacere di 800 persone, e credo che nulla, neanche la paura debba fermare il progresso che crea bellezza se usato bene. Il mio è un pensiero piccolo, piccolo come la vita, piccola come un seme che anche io ho dentro ed è capace di mandare avanti questo mondo. E allora che le nostre lacrime versate per tutte le vittime che la guerra fa possano far germogliare nell’humus del mondo nuove piante di vita sana e bella da vivere.
Non è la paura che mi fa paura è la consapevolezza che anche io devo entrare in guerra nel mio piccolo mondo che mi terrorizza, che senza armi possiedo i mezzi per far andare avanti la mia terra e che se non li userò rimarrò in un teatro che non è in grado di accogliere la novità come il miglior mezzo per partecipare alla vita. Ieri sera però ho partecipato ad un inno alla vita senza scordare la morte.
Maddalena Inglese