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L’orfanotrofio della Grande Madre – di Agostino Bergo

Prendere per il bavero un qualche genere di divinità maschile, mettendo alla prova le sue presunte capacità dialettiche, in funzione delle proprie difficoltà, è un’esperienza narcisistica che tutti pensano o sperano di provare un giorno. Magari nell’ora del dolore. Ora, posto che parlare di dialettica con un interlocutore, nel migliore dei casi, muto è inutile, almeno in funzione di un riordino causale dell’esperienza, tutto si potrebbe facilmente risolvere con il seguente scambio di battute: “Signore, perché a me?”. Risposta: “E perché no?”. Ci serve qualcun altro. Magari uno Spirito più protettivo, accomodante, che sappia perfettamente il significato di creazione (che le è proprio) e che sappia accudire, anche mentalmente. Forse la soluzione è uno Spirito Femminile. 12834569_1172439086108826_291945490_n

Per incontrare e provare a capire questa Dea, oggi, non saranno sufficienti le immagini pittoriche. Andremo insieme a cercare alcune immagini anche da altre arti visive. In fondo la Terra, un pianeta con un nome femminile, senza Arte, dall’inglese, sarebbe solo un verso di incomprensione. Quindi, ho intenzione di avvalermi di tutto l’aiuto possibile. Copritevi! Andiamo in Islanda! Da quel che sappiamo, un marchigiano celebre, nel 1824, in Islanda ha trovato una manifestazione di questa Dea e l’ha interrogata. La domanda forse più logica e scontata sarebbe: “Tu che sei il principio femminile, che dai la vita, che la preservi, che trovi sempre nuovi modi per rinascere … perché contempli anche diversità, malattia, dolore? Non si potrebbero saltare quei passaggi?”. In parole semplici: “Esistono innumerevoli fiori, piante e medicamenti. Un’anestesia per certe cose? No?”. La risposta della Dea è geniale: “… Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo …”. Potrebbe sembrare che una risposta del genere sia per lo meno evasiva. In realtà ci permette di staccarci preliminarmente da un concetto eccessivamente autoreferenziale. Quando si vorrebbero, da questo principio femminile, risposte a nostro uso e consumo, il risultato è una non risposta. La causa è l’errore nella domanda. Il vecchio ed amniotico stigma dell’ “uomo al centro dell’Universo” è tanto rassicurante da essere quasi impossibile da abbandonare. Qualche anno più tardi (1864) nasce, a Saint-André-du-Bois, Henri de Touluse-Lautrec. In un bel film del 1998, il celebre pittore, affetto da deformazione congenita, in una battuta, si rifiuta di disegnare i paesaggi. La causa: la Natura è stata perfida negli annessi del dono della vita. Comprensibile. La stessa Natura però gli aveva donato l’avvenenza delle sue modelle e l’albero sotto le cui frasche si era riposato l’amico Vincent (van Gogh).

L’impasse a questo punto sembra irrisolvibile per l’incapacità dell’uomo di trascendere la propria imperfetta condizione. E dire che si tratta di artisti. L’obiezione al mio scrivere è scontata: “Ago, mi sei andato a spulciare, per ora, solo artisti comprensibilmente arrabbiati per la propria condizione, che probabilmente imputano a chi li ha generati una responsabilità sul risultato”. Ma, è ovvio! L’elogio bucolico alla Goethe è un ottimo esercizio di stile ma è inutile in funzione della comprensione della portata complessiva ed innovativa del Principio Femminile. Trovo più interessante capire qualcosa della Grande Madre attraverso l’operato dei figli che, in teoria, le sono venuti meno bene. Tutti amano la Grande Madre sbavando su Marilyn Monroe. Poi, davanti ad uno storpio (uso questa parola da addetto ai lavori e con piena cognizione di causa – nonfatelo a casa) si scagliano contro la Natura. Improvvisamente, davanti ad un disabile, gli uomini diventano garantisti per procura e si scagliano contro la Natura, la sorte … (tutti concetti femminili). In pratica: Dio se sbaglia è misterioso; La Natura è Matrigna. Eh no ragazzi. Qui c’è un enorme errore logico. Aristotele, rispiega quella cosa del principio di non contraddizione. Anzi, andiamo sull’onirico. Forse a livello non conscio lo sappiamo tutti come funziona. A titolo di esempio vorrei mostrarvi un sogno del regista Ari Folman. Sto parlando del pluripremiato film di animazione “Valzer con Bashir” (2008). Carmi Cna’a1058749_1172439069442161_920605759_nn, un amico del protagonista, che vive in Olanda, racconta un sogno che ha fatto prima di andare in guerra. Era seduto sul ponte di una nave, terrorizzato. Dal mare, una bellissima e gigantesca donna nuda, dalla pelle blu, si avvicina a nuoto alla barca. Aggraziata e seducente, sale sul ponte, lo raccoglie da terra, lo prende tra le braccia e si rituffa. Nuotando a dorso su un mare nero e calmo, appoggia la testa dell’uomo sul suo ventre. Lui, cullato dai flutti e dalla morbidezza delle forme di lei, sembra trovare pace mentre si allontanano dall’imbarcazione. Improvvisamente un bombardiere sorvola la zona e scarica sulla nave tutto il sul suo potenziale esplosivo. In quel sogno Carmi Cna’an sembra associare al femminile un rifugio dall’insensatezza della violenza e un essere comprensivo e non giudicante. La priorità, per questa ammaliante trascendenza, è conservare la vita contro il tentativo, squisitamente umano, della propensione all’autodistruzione. Attraverso questa sequenza, possiamo comprendere visivamente le scelte estetiche di un’altra grande artista, capace di indagare intimamente il mistero della Grande Madre. Senza ardite iperboli dialettiche – che hanno portato “superare” il politeismo mediante il mistero delle Tre Persone in un unico concetto di trascendenza (non critico il concetto in sé, quanto, piuttosto, la sua a tratti oscura formulazione) – dicevo, senza orpelli mentali, Frida è stata artefice di un’altra grande intuizione che ci permette di continuare nel percorso di comprensione, se non altro artistica, del concetto di Grande Madre. Essa genera, accudisce, protegge, educa ma non solo. Da dove Leopardi si è fermato, Frida riparte. Apparentemente da qualcosa di traumatico. Forse dall’evento più traumatico per una donna (dopo una violenza di natura sessuale – presumo): un’interruzione di gravidanza.

L’opera “Ospedale Henry Ford” (1932) esprime in modo emblematico la commistione tra elementi simbolici e reali. Nel quadro Frida si rappresenta dopo un aborto, distesa su un letto d’ospedale sospeso in aria, col viso solcato di lacrime, nuda e sanguinante, con il ventre ancora rigonfio per la gravidanza sostenuta. Sullo sfondo un paesaggio industriale desolato, quello di Detroit (luogo del doloroso evento). Attorno al letto, sei elementi simbolici, disposti in modo simmetrico, anch’essi (come il letto) sospesi in aria e collegati alla mano di Frida da cordoni rossi simili a vene. Questi gli elementi: due raffigurazioni del bacino lesionato nell’incidente sull’autobus, il feto appena perduto, una lumaca (secondo alcuni simbolo della lentezza dell’aborto, secondo altri, come nelle culture indie, simbolo del concepimento), un macchinario dell’ospedale, e un’orchidea (simbolo del sentimento, ma anche il fiore che Diego le portò in occasione del ricovero).

Frida coniuga perfettamente l’esperienza di figlia e di madre, in un’ottica privativa,in riferimento ad entrambi i concetti. Frida era affetta da Spina Bifida (era quindi disabile, o “malriuscita” citando Nietzsche), era stata allattata da una nutrice (“La mia balia e io”, 1937) ed aveva subito uno spaventoso incidente nel 1925 ; insomma una figlia “non riuscita particolarmente bene”. Seguite il ragionamento. Poi, nel 1932 scopre di non poter dare fisicamente la vita. Dovrebbe essere annientata. Invece no. Frida adempie meglio di qualunque altra figura cristologica ad un trascendente disegno di rinnovo della vita, anche se straziante e malandata. Frida crea – non figli – ma capolavori. Da vita e corpo ad una commovente lezione: la Grande Madre trova sempre una strada (magari tortuosa) per arrivare al suo fine ultimo e condizione di esistenza: l’esteticamente sublime. Il bello serve più di qualunque altra cosa. Senza il bello perché diavolo dovremmo vivere? Senza la meraviglia, regalata (è sempre un regalo. Alcuni “furbi” chiedono il biglietto d’ingresso ma il bello è sempre gratuito) da un fiore, da un cielo, da un’opera di ingegno o da un’opera d’arte, da una donna, tutto sarebbe solo fatica e dolore. Capito questo, anche il disarmonico, lo sgraziato, il malriuscito è bellezza.

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Ma non bellezza da carità pruriginosa. Non sto parlando di “Come è carino quel bambino siriano! Adottiamolo (a distanza)!”. Sto parlando di qui, ora, di fianco a tutti voi. Quella donna con qualche ruga, non è bellissima? E quel ragazzo con la trisomia 21 sul tram, non è assolutamente affascinante? E quel mendicante all’angolo, non sembra uscito direttamente dal racconto di Coleridge? Posso parlare d’Arte fin che volete ma tocca a voi viverla! Anche il grottesco e l’orrendo possono far parte di una visione estetica che non genera scarti ma nutrimenti (esattamente come fa la Natura). Accenno brevemente a Joel Peter Witkin. Il lavoro del discusso fotografo statunitense, spesso si basa sulla rappresentazione dei cosiddetti “Freaks”. Se filtrato dall’Arte, al di là di esiti non sempre facilissimi da digerire nel caso di Witkin, anche un corpo sgraziato può essere bello e ispiratore. Sparisce in quest’ottica l’annosa questione relativa ai supposti errori della Natura. Se sensibilizzato al bello e alla meraviglia, chiunque può coglierlo ovunque, dando una collocazione estetica anche al dolore ed alle difficoltà. Il resto sono anche pregevoli dissertazioni sul nostro grado di mancata accettazione del diverso o del non comprensibile. L’etichetta di “brutto” è usata da chi non ha compreso il genio della Grande Madre. Tutto si trasforma in qualcosa di bello. Esempio pratico? “Ragazza Afgana” di McCurry. Come saprete esistono due versioni: una del 1985 e l’altra del 2002. Il tempo può aver scalfito alcune caratteristiche dell’incarnato, ma la bellezza è rimasta. Ha solo cambiato impercettibilmente forma.

Prima che qualcuno possa fraintendermi, non sto parlando di bellezza interiore. Non sono un radiologo. Sto parlando di estetica e del suo più profondo significato. Come si può parlare liberamente di estetica avendo come riferimento solo una trascendenza maschile? Dal film di Fincher, con le debite eccezioni, il padre è quello a cui fai una telefonata ogni 5 anni chiedendo “E adesso?”. Il Femminile, con le debite eccezioni, completa, o dovrebbe completare, una visione della vita fatta di traguardi misurabili. E se qualcosa va storto (e c’è sempre qualcosa che va storto. Altrimenti non stai vivendo)? Ti serve capire che un fallimento non è un peccato, a cui verrà corrisposta una punizione. Ti serve sapere che non sprechi tempo se ti fermi solo ad osservare. Ti serve sapere che non ci sarà un giudizio, un rendiconto o una tabella alla fine di tutto. Ti serve sperare che, nonostante ciò che sei e ciò che hai fatto, Qualcuno non ti dirà nulla, perché sa esattamente che fatica hai fatto a diventare quell’essere difettoso che sei. Il silenzio, un materno abbraccio e il calore di un seno accoglieranno i tuoi singhiozzi, finché non troverai finalmente pace. Questa è estetica. Questi sono due esseri distinti ma indissolubilmente uniti. In carne e spirito.

L’inferno è per i puri! – di Agostino Bergo

“L’inferno è per i puri!”

(Storia della Fiamma)

Origine e principio costituente dell’Universo secondo Eraclito, il fuoco è, in primo luogo, un endoscheletro che presiede al dinamico equilibrio del divenire. Tutto, dagli stati della materia, ai moti sentimentali più primitivi, alle più alte vette del raziocinio, sarebbe, secondo il filosofo greco, ordinato in funzione di “un fuoco vivo ed eterno che al tempo dovuto si accende e al tempo dovuto si spegne” (Eraclito). Innegabilmente connesso con un concetto di “purezza assoluta”, in quanto“non creato ne da dei ne dagli uomini” (Eraclito), il fuoco è anche metafora della purificazione: l’acciaio si tempra, gli strumenti chirurgici si disinfettano e l’anima espia il peccato.

A fronte di una condotta non eticamente corretta, secondo la dogmatica propria del mondo cristiano, dopo la morte, è riservata al peccatore un’eternità di supplizi e tormenti tra le fiamme e lo zolfo. Plutarco, a questo proposito, cita il caso di un certo Difilo il quale aveva rubato le colonne d’argento, che sostenevano una miniera,per arricchirsi. Questo genio, poi condannato a morte, non solo aveva trasgredito una legge, ma aveva causato il crollo della suddetta miniera. Lo scrittore greco aggiunge al concetto di punizione per trasgressione di una legge, anche quello della stupidità, anche un po’ ingenua, del male.

93fafe2c-575f-4069-ac88-90ad0e5074a4Concordare con Mann, a questo punto, diventa pleonastico. L’inferno è per i puri!

Peccare significa, in ultima analisi, andare contro la propria purezza. Purezza che dovrebbe essere raggiunta tramite prolungata esposizione alle fiamme. Ma, se un’anima ha solo assecondato la propria natura, cedendo ai più naturali e bassi istinti, da cosa dovrebbe essere purificata?

L’inferno è popolato da gente per bene,a cui la miniera è cascata in testa!

Sarebbe, tuttavia, arrogante, da parte di un qualche genere di divinità, esonerare gli uomini dalle responsabilità derivanti dalle loro azioni, solo per la loro inettitudine alla tensione verso un alto livello etico.“Ai cani si possono insegnare tante cose utili, ma non se li perdoniamo ogni volta che obbediscono alla loro natura” (Dogville, Lars von Trier, DK, 2003). La miniera crolla comunque; è fisica.

Ecco perché le fiamme, come strumento di purificazione,esistono, per lo meno nell’Arte.

È un esempio di questa visione il monumentale olio su tela “LesVoluptueux” di Victor Prouvé (1889), esposto in questi giorni al Palazzo Reale di Milano. Sei nudi (tre maschili e tre femminili) sono sospesi nell’oscurità, completamente in balia di una tempesta che li rende goffi e sgraziati nel loro violento urtarsi. L’ambientazione è tartarea, come una miniera, appunto. I cromatismi spaziano dal blu (a sinistra) fino alla terra bruciata (a destra). L’aria, quasi provenisse dal fiato di un demone, è pervasa di elettricità e gas infiammabili. Il fuoco, quindi, si sprigiona solo dopo un urto, esaurendosi in un istante.

Latranslucenza arancione di un infuocata collisione, appena consumatasi, pervade il profilo del gluteo sinistro della figura femminile centrale, irradiandosi fino alla coscia. La pelle diafana sottolinea le forme sode e languide che ancora spasimano, dopo che il piacere sembra uscire dalla bocca appena dischiusa, lasciando la donna, esausta, reclinare il capo alla sua destra. Il seno sinistro è lambito dalle purpuree chiome di un secondo nudo femminile, a destra dello spettatore. Come fiamme in balia del vento, i capelli rossi di questa figura, ritratta a testa in giù, con il braccio sinistro in cerca di un appiglio, sembrano confermare l’ipotesi di un’atmosfera letteralmente più densa, che rende difficile la respirazione e simula l’annegamento. Il profilo destro è rivolto a sinistra, verso il nudo centrale ma col mento appoggiato allo sterno.

La cassa toracica si gonfia per lo sforzo compiuto nell’ispirare e i seni sembrano attraversati da un fremitoche parte dalla colonna vertebrale e arriva appena sotto lo sterno, dove una mano maschile sembra essersi appena ritratta.

bb1b3d7c-84ea-4704-ae63-4018f3b40239Il bagliore di una fiamma – appena percettibile, che sta bruciando la chioma di un nudo maschile, a destra rispetto al nudo femminile capovolto, appena descritto – riverbera sulla parte sinistra del busto della donna, dall’ascella al gluteo. Un brivido che, partendo dalla zona lombosacrale di lei, simula la scansione temporale dell’amplesso, proiettando il ventre in avanti e lanciando il pube e le gambe, inermi, verso l’oscurità, sul retro della scena. Infine, dall’angolo in basso a sinistra della scena, fino all’ideale punto di giunzione della testa del nudo maschile a destra, una fiamma sinuosa accarezza dal basso le le gambe e i genitali del primo accennato nudo maschile a sinistra, attraversa i capelli del secondo nudo femminile, e tormenta un terzo nudo (femminile) più in basso. Il fuoco, in questa forma infernale, primitiva e primordiale, sconquassa l’uomo che ne è totalmente in balia. Le sensazioni di dolore, estasi ed affanno si confondono in un dinamismo indistinto. Solo un Titano (Prometeo) può mettere ordine in un caos di tale portata commettendo, ironia della sorte, un illecito, per cui sarà condannato ad un supplizio eterno.

Nella sterminata iconografia di Prometeo, vorrei mostrarvi ora l’olio su tela di Dirk van Baburen: “Vulcano incatena Prometeo”(1623).

Il Titano è rappresentato nudo, in posizione supina, in basso a destra. È parzialmente incatenato a dei blocchi di pietra da Vulcano, raffigurato per quasi tutta l’estensione verticale della tela, a sinistra. Il fuoco è sullo sfondo, quasi come la scena non fosse ambientata sul monte originale ma nella fucina della divinità inferma.

L’aquila, sopra Vulcano, pur avendo le ali spiegate, ancora non si è avvicinata. L’opera, infatti, prende in considerazione una fase precedente del mito, rispetto alla rappresentazione di Rubens. La tensione del corpo, espressa soprattutto per mezzo delle mani (chiusa a pugno quella già bloccata dalle catene, e rigidamente aperta quella ancora libera), anticipa la sofferenza imminente. All’ingiusta tortura assiste Mercurio, connotato dai tradizionali petaso e caduceo, con un sorriso che sembra stridere con ciò che sta avvenendo e, soprattutto, con ciò che sta per avvenire, di cui il dio è a conoscenza, dato che è stato inviato da Giove. Avvolto da un drappo blu, Mercurio sembra ricalcare un ruolo di intercessore, del tutto simile alla figura mariana. Egli, infatti, sorride per essere riuscito ad ammansire, anche se solo parzialmente, l’ira di Giove. “Ti so dire che invece d’uno ti manderia sedici avoltoi a stracciarti le viscere, perchè facendo vista di difendere te, hai accusato lui acerbamente.”(Luciano di Samosata, Prometeo, II sec. d.C.).

In basso a destra sono visibili un goniometro, un compasso ed alcuni libri, una chiara allusione alle scienze e alle arti trasmesse agli uomini attraverso il fuoco, secondo il racconto del Prometeo incatenato di Eschilo. La tortura colpisce, quindi, il benefattore ed il civilizzatore dell’umanità, colui che sfidò Giove per trasmettere il fuoco della conoscenza, che caratterizza l’uomo nella sua grandezza, ma anche nel suo limite, legato alla caducità della vita.

Sottratto dal caos irresistibilmente erotico e lascivo diProuvé, rubato agli dei dal Prometeo di Baburen, ora, il fuoco ci può apparire in una forma intellettualmente più comprensibile, nel dipinto di Dante Gabriele Rossetti “La Donna della Fiamma” (1870). Immersa nel delicato monocromatismo che abbraccia tutte le sfumature del giallo, dall’oro all’arancione, la donna è ritratta quasi a figura intera, morbidamente adagiata lungo una diagonale ideale, dall’angolo in basso a sinistra a quello in alto a destra. Appare avvolta da una sontuosa e pudica veste. È seduta in posizione di tre quarti. Il gomito sinistro è appoggiato a quello che sembra essere un bracciolo di una panca in pietra. La mano sinistra, sulle tempie, addomestica i lunghi e mossi capelli ramati, in un gesto che sembra richiamare la prevalenza dell’intelletto. Lo sguardo è assorto, fisso verso un orizzonte ipotetico alla sinistra dello spettatore. La mano destra è aperta, col polso verso il viso e le dita dischiuse verso la sinistra del dipinto. Sul palmo custodisce una singola fiammella accarezzata dal vento, da sinistra a destra del dipinto.

Divenuto, dopo Prometeo, metafora di un intelletto dinamico ma misurato, il fuoco viene affidato ad una donna, vestale di una fiamma che si fa metafora, tanto dell’ingegno, quanto del calore dei legami umani.

In questo brevissimo percorso il fuoco si è evoluto da principio, a castigo, a purificazione, a caos carico di sensualità lasciva, a dono all’uomo, ad espressione intellettuale. Questo percorso di coscienza ed autocoscienza in rapporto al fuoco ci porta verso l’ultima trasfigurazione, che connota la fiamma di un carattere funzionale ad una resurrezione umana in chiave universalistica.

Concludiamo(o non concludiamo, se preferite) con un altro personaggio controverso, espressione di quel dinamismo proprio del principio di Eraclito: “Maddalena penitente” o “Maddalena dalle due fiamme”di Georges De La Tour (1640-45 circa).

 

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Nella Maddalena penitente,conservata al MetropolitanMuseum of Art di New York, Georges De La Tour ritrae Maria Maddalena seduta, quasi di profilo. Il volto è visibile solo per un quarto, le lunghe chiome sciolte (suo attributo) ricordano l’episodio nel quale con le sue lacrime bagnò i piedi di Gesù e poi li asciugò con i capelli. Le mani sono, giunte sopra un teschio, appoggiato sulle cosce, vicino alle ginocchia. Sembra intenta a guardare nello specchio (simbolo della vanitas, spunto di meditazione sulla “vanità” delle cose terrene, secondo il libro biblico del Qohelet). La donna languida e sensuale che gioca con il fuoco del suo infernale castigo, la donna della voluttà, si evolve e rinnova ironicamente in una delle più discusse peccatrici evangeliche.

Grazie alla “Donna della Fiamma”, la tensione meditativa e intellettuale viene addomesticata, diventando insostituibile strumento di comprensione e conoscenza. La fiamma che, in un camino, ispira ed accompagna l’introspezione e l’intuizione umana, in una candela diventa strumento di studio, lettura, indagine dell’uomo, inteso come genere umano, verso l’uomo, e verso tutto ciò che lo circonda. La riflessione è resa attraverso uno specchio che restituisce, non l’immagine della vanità ma quella del lume (della ragione), ma la luce e il riverbero di una figura femminile elegante, drammaticamente tesa all’infinito e verso un concetto intellettualmente suffragistico (tanto dei diritti quanto del sapere). Grazie ad una fiamma dell’intelletto, che solo il principio femminile (non più schiavo ma consapevole di se stesso e del suo ruolo) è capace di custodire, la donna è compagna, amica, confidente e complice. La modernità, che questo fuoco del 1645 preannuncia, è la modernità di un genere umano idealmente coeso, senza distinzioni di razza, credo e, soprattutto genere. È la modernità di Artemisia Gentileschi! Nel ormai agghiacciante silenzio del roveto ardente (un fuoco muto per l’inconsistenza di un sopravvalutato padre celeste), l’uomo è pronto per dialogare nei sussurri della fiamma di una candela o nelle risate del fuoco in un camino.

Il fuoco non è più tramite per imposizioni narcisistiche di potere ma un alleato della conoscenza di sé, della propria compagna ed amica e del mondo.

 

Agostino Bergo

Streghe, ribelli, incantesimi e angeli di acciaio: viaggio in musica attraverso il fuoco – di Monica Seksich

Il fuoco, prima ancora che un fenomeno fisico, è uno stato dell’anima. Attraverso il fuoco si opera conoscenza, magia, alchimia. Oppure lo si vive, semplicemente, riconoscendone l’arcano potere trasmutativo. La musica da sempre ha attinto a piene mani, percependone l’essenza creativa e distruttiva primaria, e, da sempre, la musica ha cercato di raccontare il fuoco nel suo lato più magico, selvaggio, sensuale, rabbioso e indomito.
IL FUOCO DEI SENSI:
(https://www.youtube.com/watch?v=L18b3UQQ49I) Il primo pezzo, famosissimo, è da ascoltare immaginando di essere fiamma, e ardere sinuosamente, illuminando di rosso le mani della gitana danzate, che sta operando un sortilegio d’amore. Ecco a voi la “Danza rituale del fuego”, da “El amor brujo” di Manuel del Falla, qui con la bella coreografia di Antonio Gades per il film  El amor brujo di Carlos Saura. Nel rosso del fuoco e della notte, sale il calore della passione, quella feroce, pura e primordiale che bc402807-e3a2-416d-a064-e06c0158b617rimescola il sangue. Guardate l’orgia di mani sinuose da cui emerge la Dea rossovestita…

IL CALORE DELLA LUSSURIA
Nel 1978 non c’era solo il punk o il glam; c’era soprattutto la passione per la trasgressione, per l’esplorazione del proprio limite sensuale e sessuale, interrotta bruscamente dall’arrivo nei primi anni 80 dell’HIV. Ma nel 1978 questo brano spopolò, ed è stato omaggiato da diverse cover, tra cui una famosissima di Grace Jones. Il calore, un calore pressoché sulfureo, è il protagonista assoluto di questo brano sperimentale dei The Normal, “Warm leatherette”  (https://www.youtube.com/watch?v=S5QErPDNcj4&feature=youtu.be) letteralmente “mutandine di pelle calda”. Warm leatherette/Melts on your burning flesh/You can see your reflection/In the luminescent dash. Un inno della sensualità contrapposta alla morte (let’s make love/before you die)
IL FUOCO DELLA SPERIMENTAZIONE
HOT ON THE HEELS OF LOVE – nel 1979 i Throbbing Gristle uscivano con un caposaldo della cultura alternativa “20 Jazz Funk Greats” che a dispetto del nome è un disco dove il suono elettronico unito alla lussuriosa voce di Cosey Fanni Tutti, crea un inesorabile anelito sexy. Cosey ripete solo una frase (calda, caldissima) “I’m hot on the heels of love / Waiting for help from above (https://www.youtube.com/watch?v=tgqRXWFaGXw&feature=youtu.be). Qui il calore diventa peccato e trasgressione che invoca un aiuto trascendente, esaltando la dimensione quasi tantrica del brano.
FUOCO E CENERE: MUORE ZIGGY, RINASCE IL DUCA
Questo capolavoro del Ribelle Bowie, Ashes to ashes  – Scary Monsters 1980 (https://www.youtube.com/watch?v=HyMm4rJemtI&feature=youtu.be) è un’elegia alle ceneri della sua vita precedente. Di fatto aveva rischiato di bruciarsi anima e cervello con l’abuso di qualsiasi cosa, arrivando quasi alla pazzia. Ed ecco che con grande coraggio da fuoco a Ziggy, distrugge se stesso, rinascendo a una dimensione spirituale ed enormemente creativa, purificata dal fuoco della sua immensa passione per la musica. Il fuoco pulisce e brucia ciò che è inutile, e la cenere diventa humus per la crescita di idee nuove.

IL FUOCO DELLA PASSIONE, SETE INESTINGUIBILE
Damon Edge, Angel Fire (Alliance) (1985) – (https://www.youtube.com/watch?v=FJR05b7g_Ow&feature=youtu.be)  in questo dimenticato capolavoro di Damon Edge, leader dei Chrome, scomparso prematuramente, la voce bassa di Damon si strugge per un’amata dai capelli rossi (I don’t know where I am, You look like Angel fire) di cui 1077007a-dc37-4275-8d10-093da5c1755ccomincia a intuire la bruciante crudeltà; morrà negli anni 90 di solitudine, senza essere riuscito a dimenticarla. L’amore può davvero carbonizzare l’anima.

IL FUOCO DEL FUNK E DEL NON SENSE
Questo brano, “Burning down the House” – Talking Heads 1983 (https://www.youtube.com/watch?v=u06DpcFXc4U&feature=youtu.be) in cui si sente lo zampino geniale di Brian Eno,  nel cui video si vede davvero bruciare una casa, lo stralunassimo David Byrne canta la poetica della falsa tranquillità borghese, che nasconde infuocati e corrosivi disagi. Potete stare fermi solo se vi legate. La sezione ritmica è travolgente e africana.

IL FUOCO DELLA RABBIA
nel 1989 i Ministry, industrial metal band, escono con questo arroventassimo “Burning Inside,” taken from Ministry’s album, The Mind is a Terrible Thing to Taste (1989) (https://www.youtube.com/watch?v=E
M5DOSC0jUo&feature=youtu.be) qualcosa di lavico fuoriesce dalla chitarre, ruvide e scottanti: è il fuoco della rabbia, della disillusione, della violenza davanti all’ipocrisia. In questo brano secco e senza perdono come un inquisitore domenicano, l’ignizione è rabbiosa, rapida ed esplosiva. A tutto volume, per accendersi come pire.

IL FUOCO CHE FORGIA IL METALLO
E quando si è arrabbiati meglio si combatte: ed ecco che il fuoco serve a temprare l’acciaio. I Metallica nel 1984 cavalcarono il lampo, la rabbia diventa cosmica per ciò che era nostro ed è stato rubato: il fuoco della libertà. (https://www.youtube.com/watch?v=xjlgUx7_aN0). Con Fight Fire with Fire (combattere il fuoco con il fuoco) la rabbia di Prometeo diventa furia, velocità, ossessione antica. E a pensarci bene, la chioma incolta del Metallaro non ricorda le fiamme? Non urla l’anima Metal la sete da trascendenza, che questo calore primordiale accende impietoso?

13b2c58f-48df-448d-8313-13a1b91ad68aIL FUOCO DELLA MALINCONIA
Qui la voce roca di Cobain è corrosa dal blues. Dove vanno le persone cattive quando muoiono? Non nel Paradiso dove gli angeli volano, vanno al Lago di Fuoco a friggere, come durante il 4 luglio. Nirvana – Lake of fire (https://www.youtube.com/watch?v=uT1BuLYt2RU&list=RDuT1BuLYt2RU&index=1). Cobain, ragazzo perduto, bruciato dalla droga e dalla tensione tra bene e male. Il fuoco è l’unico elemento che scavalca la dualità. Fuoco è nelle stelle, fuoco è nell’inferno. Il fuoco è l’unica certezza.
AIN SOPH – IL SOFFIO DEL FUOCO
Chiudo questa esplorazione con uno struggente viaggio nell’anima. Soft Moon, al secolo Luis Vasquez, nuova psichedelica alchemica,  in “The Soft Moon” album (Captured Tracks, 2010) sussurra in questa inesorabile “Breathe the fire” (https://www.youtube.com/watch?v=WaMwHJWZOvY)
Nessun altro può dirmi
Chi sono io
sicuramente posso dire di essere colpevole
Ma non posso cambiare

Respiro il fuoco
E svanisco
Respiro via la tua innocenza
E assaggio le fiamme.

Ain Soph soffia nel fuoco, distrugge e ricrea.

Monica Seksich

Da Narciso a Picasso: la risata lunga quattro secoli – di Agostino Bergo

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Secondo Flaiano, la serietà si può mantenere finché si è piccoli. Negli uomini è il riflesso di rinuncia. Prima di fruire (seriamente) di intuizioni artistiche in tal senso è forse opportuno soffermarci brevemente su come un oggetto quotidiano e vezzoso produca singolari quanto apparenti aporie. Nel riflettere, esattamente come fa uno specchio, si può giungere ad una sola deduzione logica: ogni libro di ogni vita finisce con la morte del protagonista. Chiedo scusa per lo spoiler. Quindi, tanto vale non prendersi troppo sul serio. Anche nel riflettere. Altrimenti si rinuncia. Ma si rinuncia a cosa? All’atto liberatorio per antonomasia: la risata. Una risata squarcia il velo delle pseudo-intuizioni archetipiche comuni anche nel nostro linguaggio. A ben guardare,  gli stessi termini “Narciso” o “Narcisistico”, sono ridicolmente inesatti. E non si può mica sempre dare la colpa di tutto a Freud! Mi spiego peggio. Pensate ad una persona che identifichereste come “narcisista”. Credete davvero che, potendo scegliere tra “x” divinità nel panteon greco, vorrebbe essere Narciso. Preso da se stesso, come probabilmente è, vi sussurrerà, imbarazzato ma con un lumicino spermatico negli occhi: “Giove! Vorrei essere Giove!” (Come minimo, aggiungerei). È proprio la risata, scaturita dalla pellicola del celebre cineasta newyorchese, che svela, con questa battuta, il primo degli inganni dello specchio.
“Narciso”, quindi, come concetto archetipico riferibile all’uomo, forse non è corretto. Michelangelo Merisi lo sa ed immerge il suo Narciso (1597-1599) in un ambiente buio, che ricalca perfettamente le ambientazioni delle Metamorfosi ovidiane. L’oscurità in cui è immersa una figura plastica, dalla perfetta composizione e dalla sublime armonia, non è solo sfoggio di cultura classica. È impossibile sapere se Narciso sia stato vittima del fato, di se stesso, dell’acqua o della vanità. Caravaggio lo ritrae con i palmi appoggiati al bordo della pozza d’acqua. Il viso luminoso, nell’atto della contemplazione estetica. Se lo si osserva attentamente, si può notare come il riflesso dell’altra parte illuminata (il ginocchio) sembri essere leggermente sfalsato longitudinalmente verso l’alto. Proprio come il cervello – per esempio, nella memoria a breve termine, colma le lacune, inventando dettagli inesistenti, pur di non lasciare vuoti-  ci mente, così fa l’altra superficie che riflette: lo specchio. E con la risata che accompagna, per i mortali, la caduta di una divinità o della bellezza (in questo caso, in acqua), possiamo procedere,senza più prendere troppo sul serio lo specchio. Tanto, in definitiva, mente.
La bugia che lo specchio richiama, si dilata e ci mostra una serie di aspetti legati alla dogmatica, al gusto e alle buone maniere.
ab946a99-2bac-45d0-83ce-012fae317d6dIn “Il ritratto dei conuigiArnolfini” (1434), di Jan van Eyck, lo specchio è ancora una volta protagonista della scena ed è collocato nel centro geometrico del quadro.È proprio grazie alla superficie convessa di questo complemento d’arredo che siamo in grado di cogliere, non solo il considerevole virtuosismo tecnico dell’artista, ma anche la solennità delle strutture sociali del tempo. A loro volta, queste ci conducono alla scoperta di strabilianti artifici mentali, che, ancora oggi, usiamo e su cui poggiano in parte il nostro diritto e la nostra economia. La percezione, a tratti distorta, che oggi abbiamo di queste due discipline potrebbe, nella finzione artistica, unita alla menzogna dello specchio, acquistare senso.
Lo specchio convesso sulla parete di fondo ci restituisce l’altra metà della stanza facendoci vedere gli sposi di spalle e due persone al di qua della tela (dunque i testimoni), di cui uno è il pittore stesso. La costruzione nella costruzione ci rivela parte della cerimonia giuridica sottesa all’istituzione matrimoniale. Ulteriore richiamo in tal senso sono le vesti della promessa sposa, che già lasciano presagire un’ipotetica gravidanza.Questa, pur non essendo ancora in atto, viene perfettamente disegnata dal modo che hanno le vesti di cadere sull’addome della fanciulla. L’artista, giocando con lo specchio, è osservatore insieme terzo e privilegiato; l’unico in grado di avere una visione d’insieme.
Come ulteriore conferma Van Eyck scrive sul muro, sopra lo specchio, “Johannes de Eyck fuit hic 1434”, quasi a suggellare l’importanza della legittimità formale del matrimonio.
La narrazione formale è impreziosita dalla resa delle stoffe siadegli abiti(che sottolineano grado, legittimità e patrimonio), sia dell’ambientazione. Il committente, infatti, era un ricco mercante proprio di stoffe. Originario di Lucca, si era trasferito, come molti suoi colleghi, nelle Fiandre. Questa regione, all’epoca, era uno dei centri commerciali più importanti, nonché sede fiorenti di numerose filiali di istituti di credito toscani.
Non è un caso che la Borsa nacque proprio in Belgio nel secolo seguente (esattamente nel 1531). I commercianti-banchieri fiamminghi si riunivano periodicamente nel palazzo della famiglia di banchieri Van derBourse per scambiarsi titoli di credito e stipulare compravendite. Da questa prassi nacque il concetto stesso di borsa che prende il nome dalla famiglia fiamminga. Questi ed altri motivi hanno spinto vari artisti dell’epoca ad usare la rifrazione di specchi piatti o convessi per suggerire la coscienza di una realtà forse già eccessivamente complessa per poter essere resa solo dalla pittura figurativa o dall’allegoria. Proprio per la natura di quest’espediente, la riproduzionedel riflesso non risulta mai incentrata sul giudizio. Credo si possa concepire il trucco con una serie di scherzosi rimandi tra l’artista, la realtà, lo specchio e lo spettatore. È come se chi avesse una visione d’insieme (l’artista), lavorasse di sponda e di rifrazione, più che di riflessione, per suggerire, divertito, allo spettatore, cosa guardare e perché. È un gioco (di specchi, appunto).
Tornando a Flaiano, e sulla scorta di quanto osservato finora, rinunciamo a una critica severa a favore del gioco tra pittori, poiché solo ai grandi maestri, che conservano inalterato il senso di meraviglia e di stupore, è concesso di comportarsi seriamente come bambini. A noi spettatori dovrebbe poter bastare ridere con loro.
390880f4-395a-4f00-83a1-fc810385a068È un piacere personale immaginare un Velasques che, ripensando, anche al capolavoro di Tiziano, abbia voluto introdurre, nella sua Venere, uno specchio. Siamo nel 1648: piena inquisizione spagnola. La rappresentazione di un seno poteva costituire una sorta di vilipendio all’umana sacra decenza. Diego, in un divertito atto di irriverenza immaginaria, fa girare di schiena la sua leggiadra Afrodite, enfatizzando le adorabili fossette sopra i glutei e la sinuosità del corpo adagiato su un drappo scuro. Al centro della scena, c’è uno specchio, dove il viso della dea appare non definito. La cornice dello specchio, retta da Cupido, è ornata da un nastro rosa (come se ci fosse bisogno di abbellire il viso di Venere). Ma la risata di Diego è (forse) tutta lì. Il nudo femminile è osceno? Velasquez, non solo non lo fa vedere, ma “censura” anche il volto.
Chi non accetta in modo genuino e immediato la bellezza e ci riflette sopra, dando interpretazioni moraleggianti, si merita il riflesso, appannato, dello specchio.
Questo gioco si protrae fino ai primi del Novecento. L’evoluzione arriva a coinvolgere persino più di un’artista nello stesso dipinto. Ne “La riproduzione vietata” di Renè Magritte (1937) appare un peculiare ritratto allo specchio di Sir Edward James. Uno che, a detta di Salvator Dalì, sarebbe stato “l’unico autentico matto che conosco”.
Partiamo alla grande! Tre matti in una sola tela!
Un uomo elegante, ritratto di spalle, è in piedi di fronte a uno specchio.
Tutto è dipinto con una precisione quasi fotografica. Tutto farebbe presumere che, spostando lo sguardo da sinistra a destra, si riconoscerebbe facilmente il volto dell’uomo. Invece, un’altra nuca? Insomma! A destra dell’uomo, su una mensola in basso, c’è un libro. È di E. A. poe. Si vede. Si vede pure il riflesso della copertina. Come avete capito, avendo a che fare con tre matti, i matti si sono coalizzati, e ci hanno preso in giro. O meglio, hanno ridicolizzato le nostre aspettative rispetto alla realtà.
Ora guardatevi allo specchio. Come me, vedrete riflessi i tre matti con la mano destra appoggiata sulla fronte, pollice e indice a novanta gradi, la bocca appena dischiusa in un sonoro “Looooooser!!!”
Perfetto. Dalì, sai che ti dico? Vado da Pablo! Così. Per ripicca. Anche qui la situazione non migliora.
“La Ragazza allo specchio” (1932) fu definita dallo stesso Picasso particolarmente importante; il quadro rappresenta la giovane Marie-Thérèse davanti allo specchio.
bfc9bc66-3195-4088-8b45-bdd017474111Creando un sottile contrasto, l’artista dipinge sia il profilo della donna che la sua immagine riflessa; l’immagine nello specchio è chiusa da linee di contorno arcuate e da grandi aree monocromatiche. Le diverse tonalità del rosso, affiancate al grigio e al verde brillante, sembrano rappresentare il contrasto fra l’aspetto irrequieto e la sensazione interiore di pace. Picasso nel quadro sperimenta una tecnica nuova: unisce l’immagine frontale e il profilo, creando una sola forma; ritroviamo così l’unione fra la compresenza di piani (tipica del cubismo) e la chiarezza dei classici. Una sintesi che risulterà importante per la successiva evoluzione artistica del pittore spagnolo. Finalmente! Tutto sembra riappacificato. Anche se l’immagine nello specchio è una rappresentazione diversa da quella che sembra essere la realtà, almeno, alla fine, c’è una narrazione visuale unica, seppur divisa al suo interno. Mi complimento con Pablo per aver finalmente riportato ordine e sicurezza alla rappresentazione, all’io e allo specchio. Tutto è come deve essere.
O no?
No. È un altro scherzo. Adesso sono in quattro a prendersi gioco di me (come se non fossero già bastati gli altri). Vien fuori che la ragazza era l’amante di Picasso. E fin qui .. Non si separa dalla moglie, tenendo il “piede in due scarpe” fino al 1935, quando ha una figlia dall’amante e, finalmente, congeda la sventurata moglie. Esulando cf8d12aa-9529-40de-9959-6f26aa2ce369completamente da prediche morali o etichette di comportamento, il problema qui non sono le scappatelle, le gravidanze extra, i sotterfugi. Qui lo specchio rappresenta contemporaneamente tre persone e i loro reciproci legami, sentimenti e pulsioni. Siamo arrivati ad un’articolazione tale della burla verso l’osservatore che il poveretto è costretto a parlare direttamente con l’artista (o per lo meno, a spulciare la biografia) se vuole sapere almeno parte di verità.
A questo punto mi arrendo! Lo specchio non ha mai significato nulla in rapporto al semplice fenomeno fisico della rifrazione della luce. Lo specchio ha sempre riflesso qualcos’altro. In una parola: la risata di chi lo ha dipinto.
Agostino Bergo

 

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THE ECHO IS PRESENT – deviazioni e risonanze visive – di Agostino Bergo

Dal febbraio 2003 è stata elaborata dagli scienziati della Sonda Spaziale per l’anisotropia delle microonde la mappatura completa delle fluttuazioni di 44e5a329-d3b9-4440-a613-e96f23084920temperatura nello spazio, ovvero la mappatura completa della Vibrazione Cosmica di Fondo (CMBR). La CMBR venne scoperta nel 1964 dagli astronomi statunitensi A. Penzias e R. Woodrow Wilson al termine di uno studio avviato nel 1940, che li portò a conseguire il Premio Nobel nel 1978.
In estrema sintesi i due scienziati sono riusciti ad isolare l’eco primordiale: l’eco del Big Bang che risuona, nitido, ancora oggi. A tale riguardo, si possono evidenziare due caratteristiche di quest’eco, del tutto peculiari. La prima è che, confrontando le frequenze, attraverso la nomenclatura internazionale, quest’eco produce una nota; la prima nota: il Do. La seconda, se vogliamo, decisamente più prosaica, è che la rappresentazione di quest’eco, anche se realizzata in ultima analisi da apparecchiature elettroniche sofisticatissime, è esteticamente sublime. Oserei dire, artisticamente bellissima.
L’esplosione, il tutto nel nulla, che ha dato origine a nebulose, alberi, gatti, buchi neri …è un do, questo do si sente ancora oggi e la sua rappresentazione computerizzata è splendida. Non vorrei allarmare nessuno ma c’è la possibilità che tutto sia una sublime ed elegante sinfonia universale.
Naturalmente non c’è, a monte, un “pittore universale” che ha fatto in modo che la periferia della periferia di quest’universo cogliesse, dopo millenni di espressione e perfezionamento artistico, questa bellezza. Esistono – non uso il passato per coloro che hanno camminato su questa terra centinaia di anni fa, perché gli artisti vivono – persone che sono state e sono in grado di decodificare l’eco che, fisicamente risuona ovunque. Volendoci occupare in questa sede di spunti legati alle arti visive, iniziamo immediatamente annullando qualunque tipo di gerarchia in funzione dell’attinenza al tema.
8a22b6f6-fb39-478a-bd67-856ce25b58daFritz Ilg. Vi rassicuro immediatamente sull’esistenza di questo pittore anche se in rete non esistono riferimenti in salsa wiki. “Wikipedio ergo sum”, non ho paura dell’ira di Cartesio, avendolo già bonariamente preso in giro più volte. Comunque, il nostro Fritz dipinge, approssimativamente nel 1902, questo “Eco della Ninfa”. Un giunonico e pudico nudo femminile, incastonato tra due speroni di roccia, delicatamente illuminato dal tepore del mattino. Il seno destro è sollevato dalla dilatazione polmonare di una cassa armonica il cui suono, modulato dalla dolcezza di labbra appena dischiuse, è convogliato verso lo spettatore dal palmo destro. L’eco è, in questo caso, un possibile richiamo alla contemplazione estetica. La ninfa ha l’infantile furore di un bimbo che vuole mostrare a tutti il suo piccolo tesoro che ha appena scoperto giocando all’aperto. Si aggrappa allo sperone sul lato destro, lasciando libera l’altra parte di protendersi verso la possibile vallata antistante per chiamare a raccolta chiunque. Sembra volerci semplicemente dire: “Vieni a vedere che bello il mio piccolo tesoro!”. Quel tesoro è la visione e quindi la conoscenza della vallata successiva, dipinta, baciata dal sole, in basso a destra. L’eco qui è incentivo a scoprire la bellezza del nascosto. L’eco, come quello, per esempio, di una scoperta scientifica, risuona ed invita tutti ad approfondire e a scoprire. L’eco delle idee porta l’uomo a scoprire e migliorarsi. Gli artisti lo sanno e questo pittore in particolare vede anche quanto la bellezza, specie se forme femminili, sia un trampolino da cui lanciarsi verso la scoperta di altra bellezza. Sull’uso che i mezzi di comunicazione hanno fatto di questa semplice verità, stendo un velo. Coprite la ninfa..
L’eco (delle idee – veicolate dall’arte, in qualunque forma), genera, o dovrebbe generare, ricerca. Ma la bellezza è un’amante gelosa e la ricerca può venire “interrotta” dalla contemplazione. Cosa cerchiamo in definitiva se non l’appagamento della nostra brama di bellezza? Facciamo un salto indietro ma restiamo nella Mitteleuropa. È il 1818, data anche facile da ricordare. Vorrei vedere la vostra espressione nel contemplare quella che è la foto standard, inserita in tutte le antologie, alla voce “Giacomo Leopardi”: “Il viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich. Non impazzisco per Kant e, di conseguenza per le interpretazioni canoniche legate all’introspezione intimistica che richiama il filosofo delle celebri critiche. Caspar David Friedrich ha vinto il suo primo concorso a 31 anni suonati e ha come giudice (nel 1805) un certo Goethe. Tanto per capire il personaggio e il perché viene associato comunemente a Leopardi basti citare questa sua frase: “… per vivere in eterno / bisogna spesso abbandonarsi alla morte.”. Pessimista? Introverso? Io non credo. Nel Viandante in particolare mi soffermerei su alcuni dettagli in funzione di dimostrare come, in questo caso, vi siano tutti gli elementi costitutivi di quella che potremmo definire una seconda affezione funzionale dell’eco: l’interruzione della ricerca, suggerita dall’eco stesso, per la contemplazione estetica. Sì, le regole sono fissate in contraddizione. Come per tutto l’universo. Dall’inizio ho detto che è l’eco l’unica costante dal Big Bang in poi, quindi, tutto normale. Un uomo, quasi sicuramente di nobile lignaggio, solo, in una posizione elevata, davanti alla maestosità della natura che si esprime attraverso le vertigini di uno strapiombo sopra una vallata impervia, dove speroni di roccia, come scogli sul mare, impattano con la nebbia, che sembra ricalcare le asperità della superficie di un mare irrequieto. Sopra di lui le nuvole che si diradano proprio in corrispondenza di vette altissime (“la quarta parete” dell’eco). L’uomo solo è finalmente libero, ma libero di fare cosa? L’eco lo ha apparentemente ingannato. Gli ha mostrato l’importanza della diffusione delle idee per persuaderlo alla ricerca. Questa inesorabilmente e, diciamocelo, per i più, si arena all’incomprensibile coacervo di nozioni e regole, a volte anche estremamente complesse, apparentemente slegate e in contraddizione tra loro. In una probabile riproposizione dell’enigma della sfinge o di un primordiale urlo, l’uomo solo tenta almeno di conoscere se stesso.
0e4fa5a1-4f22-4f69-9549-b7ff29b3240eL’urlo, come la domanda, s’infrange sulle vette antistanti e ritorna indietro fornendo la soluzione all’enigma. La soluzione a mio parere non va ricercata in questo capolavoro. Dobbiamo percorre il Danubio e deviare verso i Balcani. Se l’eco di un urlo, di un vagito primordiale, deve essere che sia pronunciato dalla mamma (o “nonna”, come si definisce lei) dell’arte performativa: Marina Abramovic. Partiamo dal 1976 con “Libera la Voce” in cui l’Abramovic urla a se stessa. Nel 1978, insieme ad Ulay, mette in scena “AAA AAA” (non a caso la prima lettera dell’alfabeto, il “do“ delle parole). Marina e Ulay si inginocchiano di fronte all’altro, guardandosi negli occhi. Inizialmente, producono lo stesso suono. A poco a poco nasce una gara: distorsioni dell’eco reciproco. Ulay è il primo a desistere. Quando anche Marina perde la voce, entrambi riprendono il loro posizione originale. In “Libera la Voce” l’enfasi era sulla pulizia corpo e la mente, mentre ‘AAA-AAA’ la performance ruota attorno al rapporto tra due amanti. Partendo da una posizione di uguaglianza, cercano di superarsi a vicenda. Ci sono due versioni di ‘AAA-AAA’, quella registrata a Liegi (che è una versione più lunga colore del lavoro corrente), il Othe ad Amsterdam. Entrambi sono spettacoli in studio senza un pubblico. Marina riesce a trasformare l’eco in risonanza emotiva ed ontologica tra due artisti e tra due amanti. Ecco la soluzione: portare l’eco nelle vallate e tra le montagne sconfinate del nostro spirito, della nostra Anima. Questa parola, grazie all’eco, è finalmente strappata al culto e restituita alla sua legittima custode: l’Arte.
Facciamo un salto oltreoceano, per l’ultima tappa del nostro piccolo viaggio. Siamo a New York City, al Moma, oggi. Dico oggi perché L’ “Artista è presente”. È un regalo (bisticcio di parole in inglese), è fisicamente a NY ma è presente ovunque: lo spazio-tempo non è la somma algebrica di spazio e tempo. Quindi l’artista è presente ovunque e per tutti (basta solo un po’ di immaginazione, come dice quel ragazzotto di Liverpool). Marina e Ulay hanno posto fine alla loro relazione sulla Muraglia cinese. Il legame sentimental-sessuale sembra non esserci più. Lei, vestita di rosso, è seduta davanti ad un tavolo. Dall’altra parte c’è una sedia vuota. Chiunque può sedersi davanti a lei, per quanto tempo lo desidera, senza però poterle parlare e senza toccarla. Tra uno spettatore e l’altro Marina abbassa gli occhi, si concentra, rialza la testa e… dicono che tu, quando ti guarda, abbia la sensazione che lei ami solo te in quell’istante. Dicerie. Comunque, un altro le ha sostato davanti, se ne va e lei abbassa gli occhi. Li rialza e davanti c’è Ulay.
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Lei sorride, dischiude le labbra e inspira. Lui sorride ed espira. Il silenzio, poi le lacrime. Lei si protende e si tengono le mani per qualche istante. Tra due artisti, che, tra l’altro, si sono profondamente amati, l’eco è vibrazione di fondo. Non c’è più bisogno della voce quando le anime risuonano reciprocamente e sono l’una l’eco dell’altra. Questa è la soluzione e l’ultima trasformazione dell’eco: se hai fortuna, un giorno puoi incontrare la nota con cui andare in risonanza. Intona la tua nota e anche tu risuonerai. Lo scopo dell’esistenza è diventare, almeno per qualcuno, musica.
Agostino Bergo

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