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Spettacolo

Gastone Le Beau di Ester M.A. D’Agostaro

Ho sempre pensato che il teatro sia per eccellenza il luogo della fascinazione in cui il “logos” si appropria di corpi, e offre allo spettatore il piacere della visione di “pratiche alte e basse”. L’estetica dell’effimero si dispiega in epifanie sempre nuove, infatti non vi è mai uno spettacolo uguale all’altro se non forse nella struttura; apparentemente si ripetono le battute e i gesti, ma nel momento in cui tutto ciò accade ecco che si fa strada la seduzione della cancellazione. Le tracce si disperdono tra le quinte, tra le luci che si spengono lasciando il buio in cui dondolano simulacri fantasmatici che attendono in silenzio chi li animerà ancora e ancora, nella memoria di tutti coloro che fanno parte della macchina scenica. Nell’era moderna e contemporanea si tenta di fermare l’istante fuggevole di qual si voglia pratica teatrale con le foto o con i video; interviene quindi “la fantasticheria contemplativa liberamente vagante della riproducibilità tecnica” parafrasando il grande pensatore Benjamin. La bellezza seduttiva dell’obiettivo disperde il valore dell’unicità, ovvero la potenza dell’Aura, il valore dell’hic et nunc; attenzione, quando si parla di questioni teatrali i mezzi odierni restituiscono solamente una funzione illustrativa, simulano la memoria, racchiudono in uno scrigno un ricordo che cavalca l’onda visibile e invisibile del tempo e dello spazio che si rifrangerà nel mare della Storia.

Il rito del teatro si compie e si conclude in un cerchio infinito, ogni qual volta si varca lo specchio in cui i riflessi dell’Animus Anima si rincorrono eseguendo la sacralità della rappresentazione, è lì che sorge l’eterno dialogo tra  Eros e Thanatos, tra “la presenza e l’assenza”; è il gioco seduttivo e perverso del prendere e dell’abbandono in cui ciascuna maschera invocata o evocata incontra l’altro da sé e lo restituisce all’altro attivando, nell’hic et nunc, una verità che sfiora e si immerge in tutti i registri degli archetipi che fanno parte dell’inconscio collettivo.

La verità degli archetipi in questa forma d’arte è affidata al testo drammaturgico prescelto, all’interpretazione dell’attore che è voce, corpo anima, e al deus ex machina ovvero il regista.

Questo paradigma è bene armonizzato in Gastone “L’Ultimo dei Belli”, piéce che fa parte del cartellone artistico del Teatro Tenda Zappalà di Palermo, per la regia di Franco Zappalà. E’ un omaggio al film omonimo che uscì nel 1958 diretto da Mario Bonnard che volle ispirarsi, per le vicende del protagonista, al grande Ettore Petrolini e alla famosa maschera che inventò, il ruolo fu affidato ad Alberto Sordi. Molte volte a teatro si replica il testo del fantasioso Petrolini ma in questo caso la maschera del seduttore decadente del novecento trasmigra “dall’immagine in movimento” per dirla con Deleuze, per rivivere prepotentemente sulle tavole di un palcoscenico che offre allo spettatore un piacevole spettacolo metateatrale.

30703791_1504631809664120_671403916369330176_nFranco Zappalà effettua la regia di un’opera d’arte unitaria facendo attenzione alle dinamiche del teatro nel teatro; infatti, l’azione scenica, nel rispetto dell’evoluzione della narrazione, dei personaggi e dello spazio, si svolge su un doppio palcoscenico, il secondo si eleva dopo l’arco di proscenio e vi si accede con una piccola scala; escamotage di fine scenotecnica che permetterà al voyeur della platea di identificarsi con i frequentatori del Tabarin e di vivere l’attesa delle esibizioni dell’ultimo danseur mondein accompagnato dalla vedette di turno. Puntella la vicenda usando sapientemente la colonna sonora del film, composta dal grande A.F. Lavagnino, ed ecco che si compie la sutura tra la macchina attoriale e la macchina scenica: scorrono le note e il tableau vivant si compone. Fin dall’inizio la musica accompagna lo spettatore invitandolo ad entrare e godere di un salto temporale, a immergersi nelle atmosfere trasgressive dei Tabarin, dei Café Chantant più in voga in un Italia, basti pensare al Salone Margherita, luoghi frequentati da un pubblico urbano promiscuo, da artisti irregolari, da aristocratici decadenti, da parvenue, l’alcool scorreva a fiumi e le donne avevano modo di fare sfoggio di toilette in voga nelle grandi capitali.

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Voce fuori campo: “La grande guerra, la vittoria, la pace, il dopoguerra ci regala sempre i suoi prodotti, tango e un tipo strano che nessuno avrebbe osato chiamare ballerino, ma danceur mondaine: bastone, cilindro, guanti bianchi, un frak.” In fondo all’arco di proscenio dove è allestito il palcoscenico del Tabarin, ecco che appare la silhouette di Gastone interpretato da Marcello Rimi, che fin dall’inizio darà prova del suo talento, offrendo una gestualità misurata, simbolo di una seduzione che va ben oltre la maschera che indossa. Ogni gesto: la fisiognomica del viso alzando il sopracciglio, o ammiccando, o ondeggiando le mani nell’aria, o ancora scivolando il piede sul palcoscenico accompagnando il peso del corpo su di un lato, o carezzando i capelli impomatati o i polsini della camicia rigorosamente bianca o il suo elegante frak, assurge ad uno stilema di riconoscimento, connota la sua maschera di viveur, che certamente richiama i due attori ispiratori, Sordi e Petrolini, ma diventa a sua volta un segno- simbolo personale destrutturandone quindi la pedissequa imitazione. Gastone si esprime con un argot blasonato con cadenza e musicalità romanesca e il suo interprete lo codifica con una disinvoltura che sbaraglia la manipolazione della recitazione naturalista. Marcello Rimi con la sua assoluta presenza è il conquistatore di donne, “emana fascino, è affranto, compunto, vuoto senza orrore di se stesso” è l’incarnazione dell’archetipo del seduttore: “cosa ce faccio io alle donne!” E’ innamorato della propria immagine, ostenta sicurezza, conosce il saper vivere, rifugge i sentimentalismi ritenendoli vuoti, è un personaggio fatuo meglio predare e vivere di sotterfugi, vanta un atteggiamento superomistico di dannunziana memoria che Petrolini del resto, nell’invenzione di questa maschera aveva salacemente deriso. Il suo alter ego è la figura del Principe nel film il ruolo era stato affidato a De Sica, in questo spettacolo è interpretato da Giuseppe Zappalà: per il protagonista è un confidente, un punto di riferimento, una sorta di padre, ne ammira l’eleganza, rappresenta una nobiltà decadente, l’ostinazione malinconica ad ammettere che quel mondo fatto di frivolezze è soggetto a mutare inesorabilmente, che la solitudine si nasconde dietro l’angolo, al di là delle apparenze alberga altro. L’amarezza è sottolineata in questo personaggio da posture stanche, da spalle ricurve che sostengono il peso di un passato nostalgico, di debiti e del vuoto del cuore.

 

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30708742_1506361112824523_6621206568031485952_n(Giuseppe Zappalà)

Il gioco dello specchio e del rapporto dell’Animus-Anima  pervade  lo spettacolo, il cinismo di Gastone si manifesta nella manipolazione di uomini e donne, nelle sue trame di furbizie del “saper vivere” spinge Achille, interpretato da Pippo Bologna, che usa il proprio danaro illudendosi di ottenere favori amorosi così come gli viene consigliato dal gran viveur, ma riceve solo una girandola di schiaffi.

Cavallini- Mirko Bivona è il proprietario del Tabarin, si aggira tra i tavoli ostentando un’aria servizievole, gaudente per i suoi avventori e per i numeri di intrattenimento che propone.

30705124_1506313992829235_7024888632922079232_n.jpg(Pippo Bologna e Mirko Bivona)

Gastone Le Beau è l’Adone, ostenta solo il suo principio maschile Animus, controllato e calcolato, nascondendo bene la sua vera anima bisognosa di affetto e di un continuo riconoscimento esterno di qualcosa che non è solo arte ma cuore, cela la paura di amare. Meglio sedurre che essere sedotto, ordire trame per accogliere le prede che hanno necessità di attenzione, di una carezza, di vivere sotto le finte luci accecanti dei riflettori. Attorno al grande seduttore gravitano Sonia- Viviana Zappalà, duchessa straniera con cui duetta in una danza d’intrattenimento e poi civetta per ottenere favori. Le performance di quest’ultima non hanno più l’effetto desiderato è necessario una sostituzione che dia nuovo smalto allo spettacolo di Varietà proposto nel Tabarin. Da una bellezza glaciale e nordica si passa ad una più esotica Conchita- Sonia Prestigiacomo, attrice versatile, che conquista seppur per poco il favore del pubblico con un seduttivo flamenco. Sulla strada vive Mignonette – Caterina Tarantino, che da artista decaduta è costretta a vendere l’unica cosa che le rimane la sua bellezza. I dialoghi tra la donna e Gastone si svolgono sempre con il favore della notte e della strada, è il quadro vivente del tramonto, di sentimenti appena sussurrati, in cui il protagonista accentua la sua maschera illusoria di grand viveur ma la sua voce risuona afona, di disvelamento appena accennato.

30698078_1505317889595512_7050717475318530048_nViviana Zappalà

30703894_1506314672829167_8900401684585381888_nSonia Prestigiacomo

30697915_1504794576314510_6454996831234424832_nCaterina Tarantino

L’ultima donna chiave negli incontri fuggevoli di Gastone è Annina-Alessia Acquaviva, una servetta dal grande talento. Ecco L’Animus incontra l’Anima, il piacere artistico potrebbe trasformarsi in altro, ma Gastone non è ancora pronto a rivelare il proprio cuore, è convinto che lei proprio perché inesperiente non può debuttare senza il suo fondamentale supporto artistico; i tempi cambiano la freschezza di Annina ha le ali per spiccare il volo, soprattutto ha la grinta per mordere la vita e trasformarla. Annina è una soubrette in ascesa grazie al consenso del pubblico che ne riconosce entusiasta il talento e diventa Anna La Belle.

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30714776_1506360846157883_4693478598223331328_nAlessia Acquaviva

Gastone Le Beau cede lo scettro ad Anna La Belle, il gioco dello specchio ritorna inesorabile, la seduzione si veste di Anima e risplende verso il cambiamento; è dalla capacità di abbandonare per perseguire il proprio sogno che sorge la nuova Artemide con coraggio e cuore, è sensuale, selvaggia, attraente, estroversa come Afrodite dea della bellezza e dell’amore; nessuno resiste al tuo fascino. Nell’interpretazione del ruolo ritroviamo veramente le caratteristiche della vedette del grande Varietà, presenza scenica, una piacevole voce quando canta un classico del repertorio delle canzonette “Come pioveva”, eleganza e verve nel ballo.

Epilogo, l’ascesa corrisponde ad una discesa e Gastone con il cuore spezzato continua ad aggrapparsi alla sua maschera di viveur, si allontana, un’ultima passeggiata ripetendo il clichè della sua inconfondibile gestualità, risale per l’ultima volta le scale: il palcoscenico è vuoto, canta le sue qualità per essere fedele al suo frak e all’immagine di sé, si spengono le luci su un’epoca …

Ringrazio  Giuseppe Bellomare per le foto di scena potete ammirare il suo talento nella sua pagina Facebook

Ed ecco a voi una galleria di immagini che servono a ricordare altri momenti importanti di questo spettacolo:

30656850_1504632552997379_5480981227269783552_nIvonne, la spogliarellista – Hefsiba Di Pasquale

30697681_1504751269652174_5138861454073528320_nL’impresario milanese che scoprirà il talento di Annina trasformandola in una vedette -Fabrizio Bondì

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L’impresario che aiuterà Gastone a creare il suo Varietà nella sua ascesa e nella sua caduta.

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In un Varietà che si rispetti in cui si susseguono una serie di numeri, la citazione è d’obbligo skech comico basato sul doppio senso, ben imitato da Francesco D’Amore; Fabiola Bologna

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Gastone ha i suoi guoi anche con la giustizia. il commissario- Antonio Carnicella

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Bello il filmato che scorre verso la fine del secondo tempo, che dà l’idea dell’ascesa e dei successi di Anna la Belle realizzato da Fabrizio Bondì.

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Ecco il direttore e musicista – Dario Miranda

Segnalo poi la presenza della Signora Maria Zappalà che interpreta il ruolo della signora presso cui lavora Annina.

Uno spettacolo è fatto anche di persone che lavorano dietro le quinte e di prove, di preparazione, ciascuno ha il proprio ruolo importante che fa funzionare la meraviglia della macchina scenica

Tecnico Audio: Carlo Gargano
Tecnico Luci: Adriano Pollarolo
Costumi: Domenica Alaimo E Alessandra Passantino Belli
Direttore Palcoscenico: Angelo La Franca Scenografie: Luca Jalal

La magia dell’acrobatica a terra – di Eleonora Pardo

La-GesteOgni essere umano, in ogni epoca, stagione o parte del mondo si è sempre posto in relazione con la Madre Terra. Da essa ed in essa evolviamo come specie da secoli, nel suo ventre accogliente ci muoviamo, ci nutriamo, ci incontriamo. La esploriamo in lungo ed in largo, a contatto con i nostri piedi ne sentiamo il calore se essa è baciata dal sole o ne avvertiamo l’umidità quando è stata carezzata dalla pioggia.

Gli artisti circensi hanno sempre avuto una relazione di estrema vicinanza con questo elemento fondante della natura.

Per la loro definizione di girovaghi, nomadi, i circensi hanno sempre fatto della Madre Terra la loro casa; fin dal medioevo questi artisti fanno parte di quell’immaginario che li vede abitare roulotte, che si muovono in carovana o si accampano fuori dai centri abitati.

Oggi il circo fa parte delle città, i suoi artisti non solo li vedi sotto al tendone ma anche nei centri storici, mentre passeggi può capitarti di incontrare un giocoliere od un acrobata che sta esprimendo la sua arte in strada.

Ed ecco che la terra diventa il suo naturale palcoscenico, ecco che ancora una volta la relazione tra l’artista a la Madre Terra è consolidata. Lo spazio si connota di sacralità rituale e i movimenti che si compiono esprimono l’artisticità e la danza dei quattro elementi. L’artista circense o di strada coraggiosamente li sfida tutti, cercando di superarne i limiti o di domarne le caratteristiche.

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Entrando ancora di più nel merito, se penso alle varie discipline circensi in relazione con l’elemento terra, la forma che eccelle e affascina è: l’acrobatica a terra.

L’acrobatica a terra é una disciplina antichissima che già si praticava al tempo degli egizi, che esprime la relazione tra il corpo dell’artista ed il suo equilibrio, tra il suo equilibrio e quello di un altro artista, tra l’unione di questi equilibri e la gravità terrestre.

Quando sono in equilibrio con i piedi sulle spalle del porter , quest’ultimo mi sostiene in quanto le forti gambe sono ben piantate; è un atto di fiducia e di armonia tra due corpi che si accolgono fino a formare un’unica scultura umana. Quante volte abbiamo assistito a delle acrobazie di Piramidi Umane e le abbiamo guardate con un attonito sguardo, avvolti dall’energia della forza che può sfidare ogni limite. Salti, capriole, verticali, acrobatica mano a mano, tutte varianti che offrono lo spettacolo mirabile di corpi scolpiti che si muovono figurando immagini che sembrano i fregi di un antico tempio.

Solo con passione, allenamento, sacrificio ed impegno ciascun artista supera il proprio limite e lo dona al pubblico.

È nel rischio che sperimentiamo molteplici potenzialità, nutro sia il corpo che la mente; miglioro la coordinazione sia della vista che degli arti inferiori e superiori, i riflessi, la prontezza, ritmo ed equilibrio. Imparo l’uso del respiro e sviluppo la percezione temporale, i miei mol.phpvimenti saranno più sincronizzati, flessuosi, ed io mi muoverò meglio nello spazio, sarò più concentrata ed imparerò ad avere pazienza e costanza.

Superando i propri limiti l’artista cresce, muta e si rigenera; prende coscienza di sè e lavorando su esercizi in coppia o in gruppo crea un legame di fiducia reciproca che accresce il suo grado di socialità.

Come una Madre attenta la Terra ha tessuto un’altra magia, ha accolto le arti della performance, ne ha riconosciuto il valore, e in quello spazio che spesso è definito da un cerchio si compie la vita di un artista.

Drammaturgia del Fuoco a Palermo incontro con Eleonora Pardo – di Maria Angela D’Agostaro

Lo spazio urbano è il luogo deputato per lo spettacolo della strada; ha come protagonisti una schiera di artisti che offrono il corpo e la loro singolare destrezza al pubblico che libero passa e si ferma, attirato dalla fascinazione o curiosità di ciò che sta accadendo.

Lo spettacolo della strada è un arte antica: i mimi, i jongleurs, i narratori, già sono presenti a Siracusa quando la Sicilia si chiamava Magna Grecia. Di solito il nome che ha valicato i secoli  accomunando questa categoria di artisti girovaghi è: saltimbanco. Lo vediamo protagonista, dopo aver transitato nelle feste romane, nel Medioevo, accompagnato da altre figure colorate e mascherate, quando i  Misteri sono annunciati da un’allegra parata. Molte volte gli artisti di strada, hanno lasciato la piazza della fiera e sono stati accolti nelle corti per allietare i mecenati di turno.

Le pratiche teatrali sviluppatesi nel tempo li hanno inglobati nelle compagnie girovaghe del 1500, saltimbanchi – commedianti, ma non hanno mai dimenticato l’odore e la polvere della strada, dello spazio libero.

In Francia alcuni hanno scelto il nomadismo delle compagnie circensi che si sono affermate in piena era romantica, altri muovendosi sempre tra performance teatrale e arti della pista hanno prediletto Le Boulevarde du Crime, sorto a Parigi. Lì erano sorti una costellazione di piccoli teatri che esibivano cartelli di una spettacolarità di consumo per la borghesia, per scrittori e intellettuali  stanchi della grande drammaturgia e ricercavano la magia del corpo, dell’orrido, della risata, della meraviglia e del meraviglioso.

Questi artisti hanno ispirato il rinnovamento del teatro, le teorie e la performance dell’attore che ha percorso nelle varie fasi tutto il novecento. Antonin Artaud, Eugenio Barba, solo per citarne alcuni, hanno visto nella spettacolarità che oggi chiamiamo urbana, una sacralità dissacrante che conduce il corpo  a spingersi oltre e a donarsi plasticamente ed emotivamente in pasto alle fauci del pubblico che desidera fruirne al di fuori delle barriere e distanza del palcoscenico all’italiana: è infranto lo specchio della quarta parete.

Molte volte l’arte di strada negli ultimi decenni ha avuto una connotazione civile e sociale, mentre in Francia  e in Belgio i nuovi “saltimbanchi” godono di diritti,  di spazi deputati e di riconoscimenti nei festival di teatro e nelle città, in Italia, in particolare in Sicilia, queste figure non vengono apprezzate dalle istituzioni deputate e di conseguenza anche il pubblico ne ha una visione parziale e distorta. L’artista di strada è considerato un parvenue, la sua legittima questua, elemento onorevole per il riconoscimento dell’esibizione nel Medioevo, è assimilato spesso ad accattonaggio.

Per comprendere e conoscere qual è lo stato delle arti performative circensi che troviamo negli spazi urbani di Palermo, ho incontrato Eleonora Pardo, artista che si esibisce in performance di teatro-danza con il fuoco.

Come nasce la performance di strada a Palermo e chi sono i protagonisti?

  • Nell’ultimo decennio sono molti coloro che si sono dedicati all’esibizione della propria qualità artistica negli spazi del centro storico. I protagonisti hanno scelto l’arte circense in tutte le sue pratiche ed espressioni in particolare: la clownerie acrobatica, la jonglerie classica con clave, palline, monociclo, sfera di cristallo e molti attrezzi e accessori che servono per “il fuoco”.

Questi artisti si esibiscono da soli o fanno parte di piccole compagnie ma la percezione è che appartengano ad un’unica famiglia, legati dal cerchio della passione per l’arte e il comune senso di amicizia. Vi è un codice che ci accomuna nel frequentare la strada,  ha come base: il rispetto degl’uni verso gli altri.

 

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In questo tipo di arte troviamo evocati ed espressi tutti e quattro gli elementi: se pensiamo all’aria certamente l’immagine che attiriamo è la giocoleria in tutte le sue accezioni; gli oggetti si librano e volteggiano, scompaiono e appaiono, si moltiplicano e il corpo flessuoso del performer ne insegue il divenire calcolato dall’abilità  e gestualità delle mani. La gioia assale e meraviglia anche lo spettatore adulto quando è l’acqua che diventa protagonista; Agata Leale crea uno spettacolo di leggere bolle di sapone di qual si voglia dimensione, che si rincorrono, che felici trovano spazio dentro le altre creando fantasmagorie.

 

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L’Aria chiama la terra. Sono diversi gli artisti di Palermo che si offrono come “attori totali” di teatrale memoria: Jonathan Marquis, Virgilio Rattoballi, Giorgio Cannata e Fabrizio Campo solo per citarne alcuni. Lo spettatore che ha potuto fermarsi e godere degli spettacoli di questi protagonisti è stato pervaso per dirla con Bergson da un ilarità che gli ha donato benessere e leggerezza:  “Ridendo, l’uomo si sente vivere”. La clouwnerie la fa da padrone là dove la parola diventa charabia, il volto diventa una maschera al di là del cerone, il corpo trova nella caduta calcolata ladestrezza e l’armonia con l’oggetto scelto. L’acrobazia, l’equilibrio, l’improvvisazione è la regina della piéce spettacolare. Costoro sono attori, acrobati, saltimbanchi che conoscono la magia del tempo e dello spazio e lo cavalcano, valicano toccando ora le stelle ed ora la terra.

L’ibridazione dei generi accomuna le arti performative della strada: corpo danzante, corpo che mima, corpo che saggia la gravità in alto e in basso.

 

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Eleonora tu ti esibisci usando il fuoco quali sono le caratteristiche?

  • Il fuoco esprime leggerezza e le sue lingue lambiscono subito l’alto, si espande creando differenti sfumature di luce.

Ho scelto il fuoco per riabilitare l’accezione negativa che lo connota; domarlo significa per me, esprimere il mondo della Volontà che arde dentro l’individuo. Usiamo il fuoco per dimostrare che rischiando si possono scoprire universi fantastici. Questo elemento quando viene usato in una danza crea delle figure particolari, uniche a cui puoi attribuire un significato.

Se disegno per terra una linea di fuoco disponendo della segatura mista a paraffina e l’accendo, già indico una soglia fra ciò che è bene e ciò che è male, attraversarla significa che sto superando dei limiti interiori.

Durante gli spettacoli molte volte lo manipolo, lo offro ai miei compagni di viaggio ed al pubblico in quest’ultimo caso assurge a simbolo di volontà di azione, di condivisione e di amicizia.

Per me è importante il rapporto dinamico e plastico che il corpo e la sua espressione, instaura con il fuoco; la meraviglia da suscitare nella percezione dello spettatore quindi, non sta nell’azzerare la salivazione attuando dei giochi di “pericolo”, ma nella facoltà magica che sprigiona passione, che percorre come una carezza la schiena e avvolge il cuore a desiderare di carezzare le fiamme e rimanere illesi.

Ho sempre proposto spettacoli che narrano una storia a sfondo sociale che rende universale il concetto di umanità: questo elemento amplifica la performance e la percezione di ciò che sta accadendo al di là della caducità del tempo e dello spazio.

Mi potresti descrivere il percorso degli artisti del fuoco a Palermo?

  • Tutti abbiamo iniziato all’interno di un’unica compagnia, ma dopo un periodo di formazione, ciascuno di noi ha cercato la propria strada come è giusto che sia, per esprimere la propria individualità e creatività. La maestra indiscussa secondo me, di questa disciplina a Palermo è Sabrina Firmaturi.

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Interrompo la conversazione e pesco nella mia recente memoria che mi ha spinto ad intervistare Eleonora. “Io stessa, ho avuto il piacere di assistere ad uno spettacolo di questa splendida donna e artista a gennaio scorso. Sono rimasta affascinata da come coniuga la danza usando musiche che chiaramente evocano atmosfere gitane e orientali. Ella, leggiadra, ancheggiava, strisciava i piedi cercando l’accoglienza di Madre Terra, e sventolava il suo ventaglio di fuoco fendendo l’aria. Fuoco e sensualità femminile era il segno portante dello spettacolo. Era finito il tempo della cenere e l’artista incarnava l’araba fenice, colei che sa il segreto che porta con sé il fuoco; in virtù di questa Sapienza con la danza lo donava agli spettatori con ardente amore. Tutti potevamo vedere e goderne, ma solo con il permesso della Vestale del fuoco lo si poteva sfiorare anche solo con l’immaginazione; si aveva accesso al divino cerchio solo se scelti o se coraggiosi. La performance di quella sera si è chiusa proprio con la richiesta ad uno spettatore di provare la divina e infuocata ebbrezza. Accanto alla danzatrice del fuoco si è esibito Valerio Genovese che ha dato prova di destrezza e di grande complicità di amorosi sensi con l’elemento e con la donna.

Lo spettacolo ha incarnato a pieno la dualità del fuoco in cui alberga il principio femminile e maschile.”

 

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Quali sono gli altri protagonisti che vuoi segnalare?

  • Ho avuto il piacere di esibirmi con Gabriella Matranga che considero una mia maestra dalla quale ho appreso l’importanza dell’espressione corporea; Brida Luna, Malù, Betty Militano per citarne alcuni. Un mondo che ha un’impronta fortemente femminile e in ogni spettacolo, che si sviluppa da un canovaccio, si sottolinea la cura e il rinnovo del mandato delle vestali: perpetue custodi del rinnovamento della Vita.

Maria Angela D’Agostaro

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La danza degli specchi per Hathor, Signora del Cielo egizio – di Renata Orlando

458e2406-1e2f-4f65-a061-cf47118b13fcLa dea Hathor rappresenta indubbiamente una tra le maggiori personificazioni del principio femminile, secondo il pàntheon egizio. Il suo nome – come meglio esplicita la variante con cui viene più comunemente scritto – significa “casa di Horus” e fa riferimento probabilmente al mito secondo cui Horus, identificato come dio-falco celeste e dio-sole, al termine del proprio viaggio tra i cieli, la sera sarebbe rientrato nella bocca di Hathor per trascorrervi la notte, godere di un buon sonno e rinascere nella veste del sole mattutino.
Hathor è sì la Signora del Cielo, ma anche la vacca alata che diede vita al creato, identificata inoltre come la matrona del corpo dei morti, suo possesso in quanto partoriti da lei stessa. Spesso, infatti, viene rappresentata insieme ad Osiride mentre accoglie i defunti nel mondo dell’Oltretomba.
Era dea dell’amore e delle passioni, un’immagine che aveva raggiunto anche la Grecia dove, infatti, la dea veniva chiamata con il nome del suo corrispettivo ellenico: Afrodite.

Le competenze divine di Hathor non si limitavano però a questo, dal momento che è spesso identificata come patrona delle arti, della musica e del canto. Le sue feste, infatti, erano orge di ebbrezza, gioia e musica. Famosa la festa del primo giorno dell’anno durante il quale il simulacro della Dea veniva portato fuori dal santuario ed esposto ai raggi del neonato Sole.
Una dea multiforme insomma, un’immagine, la sua, che ricorda le grandi dee dell’antichità, madri protostoriche, tra le quali la babilonese Ishtar o la fenicia Astarte. Strettamente connessa all’universo del f927ac3e-1d7f-400c-b3f1-855f1e7e9744femminile, Hathor veniva invocata dalle vergini e dalle vedove per trovare l’amore. Era la madre di tutte le donne, che nella sfera privata portavano avanti il suo culto domestico, protettrice della cosmesi femminile in quanto dea della bellezza femminile e nume tutelare di tutte le femmine animali.

Le danzatrici fedeli di Hathor erano consacrate e il rigido protocollo non prevedeva che partecipassero a banchetti, poiché la loro arte era esclusivamente dedicata al culto della dea. Da notare, inoltre, che tra gli oggetti sacri simboleggianti la teologia e i miti della dea primordiale del cielo, vi è lo specchio: il suo significato simbolico lo mette in rapporto con la vita e la rigenerazione.
A tal proposito, la “danza degli specchi” rappresentava un insieme di movimenti coreografici, in cui un gruppo di giovani donne si muovevano con passi armoniosi, studiati dal rigido copione del rituale. Queste indossavano lunghi abiti bianchi di lino e gioielli variopinti, con un’acconciatura fatta di trecce lunghe che alla fine terminavano con colorati dischi di metallo, tenendo in mano degli specchi (ricavati da altri metalli lavorati a lucido) raffiguranti la dea Hathor.

 

c747dbf1-847d-4a50-b46a-0d6ceb08b8b0La coreografia si svolgeva in modo tale che l’immagine della dea, dipinta su delle palette di legno tenute nell’altra mano, si rispecchiasse continuamene movendo le mani. Le danzatrici, in questo modo, facevano apparire ad ogni passo, ad ogni gesto e movimento l’effige della dea, con lo scopo di evidenziare la presenza costante e benevola di essa sul rito stesso. Nella tomba di Mereruka, visir di Teti, a Saqqara, infatti sono raffigurate quattro fanciulle che eseguono una danza ritmata tenendo in mano specchi con manico papiriforme e nell’altra strumenti musicali simili a nacchere, a forma di mano, anch’essi sacri alla dea, della quale accompagnavano i riti e le feste: le danzatrici con gli specchi cercano di cogliere l’immagine della mano e, quindi, della dea stessa. Un ruolo analogo avrà lo specchio in una processione isiaca (la dea Iside si identifica sincretisticamente con Hathor) descritta da Apuleio ne Le Metamorfosi: alcune partecipanti al corteo reggono specchi dietro la schiena per permettere alla statua di Iside, che si trovava alle loro spalle, di riflettersi e di rendersi visibile alle sue fedeli che la precedevano.
Le danze facevano parte anche e soprattutto delle cerimonie religiose, tanto che nel medio regno alcune celebrazioni funebri venivano accompagnate dai “Muu” degli attori/danzatori, che conducevano i defunti fino all’ingresso della necropoli. In seguito ai frequenti contatti dell’Egitto con il vicino oriente la musica e la danza subirono le influenze asiatiche: quest’ultima, infatti,  prese forme sempre più sensuali e i movimenti si fecero più sinuosi ed aggraziati, le lunghe vesti delle danzatrici si trasformarono in abiti succinti, spesso ridotti a corti e trasparenti gonnellini.
 
Renata Orlando
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“Tu Cher dalle stelle” una messa in scena … – di Maria Angela D’Agostaro

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Il teatro civile e il teatro di narrazione sono forme di spettacolo che si sono affermate negli ultimi decenni per innestare un nuovo dialogo tra la società e l’arte, tra palcoscenico e spettatori.

Marco Balliani, Marco Paolini, Gabriele Vacis prima e in seguito Ascanio Celestini, Federico Bertozzi, Moni Ovadia, Andrea Cosentino, hanno utilizzato i registri del monologo, della fiaba, accompagnandola alle volte con la musica per sviluppare un “teatro di parola” di pasoliniana memoria che possa far sì che il teatro assolva un compito sociale, civile e politico e di informazione attuale.

Su questa scia si pone l’evento organizzato dall’Arcigay Palermo sul palco dell’Ex Noviziato dei Crociferi di Palermo che ha affidato agli artisti che si sono alternati sul palco un unico messaggio di impegno civile “spaccare i muri dell’identità obbligatoria” come ha affermato Daniela Tomasino di Arcigay. La serata è stata aperta dall’esibizione della Drag Queen La MIk (Michele Costagliola) a cui è seguito lo spettacolo “Tu Cher dalle Stelle” e a chiusura le Crispies, band di percussioniste nata tra le volontarie della Croce Rossa.

IMG_7011 copia copiasmallLuigi Tabita ha scelto di mettere in scena  Tu Cher dalle stelle. Una favola di Natale dell’autore televisivo e scrittore Matteo Bianchi,  accompagnato da Rita Collura (sax e arrangiamenti), Riccardo Bertolino (chitarra), Fulvio Buccafusco (contrabbasso) per ribadire il suo impegno civile. “Il teatro deve regalarti un sogno” afferma, e la sua performance fa sì che il teatro di parola auspicato da Pier Paolo Pasolini prenda vita nella narrazione di una favola che sottolinea l’innocenza di un bambino, Luca, che desidera come dono di Natale dei pattini bianchi e per ottenerli scrive ad una icona pop Cher.

La narrazione scivola puntellata da una phonè che attinge ad uno specchio ricco di emozioni in cui la gestualità del giovane performer si armonizza apollineamente. Luigi Tabita dietro il leggio, si muove con appeal e charme, la favola narrata assurge a puro rito e il “fare” diventa un messaggio che trascende il testo. Il microcosmo del piccolo Luca fatto di sogni, di pensieri, di sguardi di approvazione  o disapprovazione di mamma e papà per una richiesta di un dono posto al giudizio di “genere” diventa lo specchio di un macrocosmo attuale.

Sul palcoscenico  si consuma una narrazione figurativa ed evocativa, grazie anche ad un atmosfera tinta dalle musiche pop di Cher arrangiate in chiave jazz infatti, come in un sogno lucido, lo spettatore si trova magicamente trasportato in un mondo di lustrini e paillettes per poi trovarsi a casa di Luca che curioso sta per aprire il suo dono per poi gioire perché finalmente ha ottenuto ciò che innocentemente desiderava: i pattini bianchi grazie ad una star che meravigliosamente si materializza nel salotto di famiglia. A questo punto della narrazione l’enfasi della parola grazie alla performance di Luigi Tabita acquista un tale potere da travalicare il reale per assurgere a simbolo, archetipo: il rito sociale si compie! E’ il trionfo dell’Innocente. Luca rappresenta la parte che alberga in ciascun essere umano che non ha connotazione di “genere”, che è scevra dalle maglie della Colpa e del Giudizio. Egli esegue il proprio cammino fiducioso e con fede otterrà la propria ricompensa: i pattini bianchi dello stesso colore della purezza incontaminata del cuore.

Ancora una volta Luigi Tabita in questa performance ha celebrato con maestria attoriale, il suo impegno civile e il suo viscerale amore per il teatro, lavoro che ha scelto con dedizione e passione. Nella sua recitazione ha incarnato egregiamente un risonante riflesso tra i sentimenti dei personaggi che animano la storia e ciò che avviene nella realtà sociale, realizzando così una modalità  di interpretazione che troviamo espressa da Shakespeare in Amleto dice ai comici che assolderà per smascherare lo zio : “Mi raccomando, recitate la tirata come l’ho detta io, scandita e in punta di lingua; a urlarla, come fanno tanti attori, sarebbe come affidare i miei versi a un banditore di piazza. E non affettate l’aria con la mano, così, ma siate delicato perché anche nel turbine, nella tempesta, o, per così dire, nel vortice della passione, dovete procurarvi una certa dolcezza e misura. Ah! Mi irrita nel più profondo dell’anima udire un tizio forzuto e imparruccato che fa a brani una passione, la straccia, per rintronare la platea, che, nella maggior parte dei casi, capisce solo pantomime senza capo né coda e strepiti: evitatelo. Ma non siate nemmeno troppo addomesticati. Fatevi guidare dalla discrezione, accordate il gesto alle parole, la parola al gesto, avendo cura di non superare la modestia della natura.

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Qualsiasi cosa in tal misura gonfiata è ben lontana dalla recitazione, il cui fine è di reggere lo specchio alla natura, direi; di mostrare alla virtù il suo volto, al disdegno la sua immagine, e perfino la forma e l’impronta loro all’età e al corpo che il momento esige.” La forza ammaliatrice della sua silhouette sul palcoscenico trae energia da un bagaglio fatto di esperienze di vita e di formazione, si affida ad una parola che porge con il potere dell’affabulazione per poi lasciare una traccia interpretativa che si fa corpo emotivo e fisico.

Quindi Tu Cher dalle stelle. Una favola di Natale non è uno spettacolo solo natalizio va oltre lo specchio del Tempo in quanto, in questa messa in scena la performance celebra la Vita: il mondo adulto vaga spesso nella cecità soggiogato dal pregiudizio, incatenato dal falso perbenismo e da un’illusoria morale. I bambini sono piccole persone che necessitano di essere ascoltati e accolti, guidati o meglio accompagnati nel rispetto di esprimere liberamente quello che sono al di là delle sovrastrutture sociali.  

Maria Angela D’Agostaro

“Perché calzare un’ala”? Il ballet blanc come asse tra terra e cielo – di Renata Orlando

7eb2fb05-a93f-4b91-a087-5d866c15bcdeL’oscillare tra il respiro di una specificità estetica fondata sulla sola bellezza lineare e plastica del disegno ritmico del corpo nello spazio e l’esigenza significativa, narrativa e rappresentativa del gesto danzante, ha caratterizzato il percorso creativo della danza per secoli, mostrandosi al grado massimo nella forma ibrida e illustre del balletto ottocentesco.
La danza, considerata dalla cultura borghese dell’Ottocento arte della distrazione e dell’intrattenimento, ha iniziato a ottenere spessore culturale solo con la diversa e nobilitata concezione psico-fisica, espressiva e creativa del movimento affermatasi nelle scienze umane all’alba del XX secolo infatti, da ballo di sala praticato dalla nobiltà e dai cittadini nella corte agreste durante le feste popolari, il balletto diventa espressione artistica goduta dagli spettatori ma praticata ed esibita da professionisti.
Studi filosofici e antropologici ne hanno recuperato i valori originari come innata attitudine umana e cellula primaria di ogni modalità rappresentativa ed è evidente come tale recupero sia avvenuto anche attraverso uno dei più importanti e fondamentali mezzi scenici: il costume. Il costume assume aspetti precisi e codificati, si evolve e si adegua ai nascenti generi ballettistici, divenendo strumento significativo di una tecnica altamente formalizzata.
Tra la seconda metà del 1600 e i primi anni del 1700, i ballerini indossavano maschere, svariati modelli di parrucche (à fenetres, a calotta, à la moutonne, à la brigadiére) che costituivano vere e proprie impalcature, scarpe col tacco, abiti dalla scarsa vestibilità e del tutto inadatti alla libertà di movimento. In particolare, le donne erano condizionate da bustini con stecche, corpetti, gonne lunghe e sopragonne sorrette da pesanti paniers. Gli uomini erano appena poco più liberi, inguainati in redingotes dalla vita stretta, appesantite da passamanerie e ricami, con falde ai fianchi irrobustite da stecche di balena.
Furono due delle più grandi ballerine francesi dell’epoca – seppure rivali – Marie Camargo (1710-1770) e Marie Sallé (1707-1756) a cercare di giungere a una semplificazione del vestiario. La prima decise di calzare scarpe senza tacco, accorciò le gonne e abbandonò le maschere; la seconda fece indossare al suo compagno di danza tuniche greche, sostituendo così le voluminose vesti.
87e43076-13c6-4102-921c-5c1254e23e23Alla fine del secolo il balletto si evolve ulteriormente e, di fatto, il tutù, diventa una semplificazione estrema del normale abito dei primi anni dell’Ottocento, di cui mantiene in parte la foggia: corpetto aderente con vita alla linea naturale o con vita a “V”, ampio scollo con spalle scoperte, seno in evidenza, ampia gonna arricciata, vaporosa e a più strati, che arriva alla caviglia o poco sopra. Tale foggia resterà, seppur semplificata con il passare degli anni e con il cambiamento di gusti e abitudini, in quello che poi sarà noto come “tutù romantico”.
Verso la fine del 1700, in Russia, si inizierà a danzare sulle punte, ma solo nel 1832 Maria Taglioni ballerà tutta La Sylphide sulla punta delle sue scarpette. Queste, inizialmente rinforzate da ricami, subiranno delle modifiche, infatti il nuovo rinforzo sarà costituito da solide punte in gesso, le quali concederanno alla ballerina di interpretare al meglio le molte creature eteree, crepuscolari e infelici, care all’animo romantico.
Tale cambiamento, chiaramente, comporterà un ruolo di massima importanza per il movimento degli arti inferiori, che acquisteranno una maggiore mobilità: il tutù continuerà a semplificarsi e quello bianco e vaporoso, disegnato da costumisti come Eugène Lamy, Paul Lormier, Alfred Albert, per la Salle, fece scuola e si ritroverà nella Giselle danzata da Carlotta Grisi nel 1841.
Sarà proprio da quell’originario costume bianco ed etereo che nascerà il termine di ballet blanc o balletto bianco, che indica tipicamente il balletto romantico ottocentesco.
L’uso del termine tutù, che trova la sua origine negli spettacoli di varietà e di cancan, è attestato in realtà solo a partire dalla fine del XIX secolo, quindi molto tempo dopo la comparsa del jupon , “sottogonna” (si parla anche di jupe o juponnage, “gonna”) di mussola de La Sylphide. È un termine ambiguo, che trova la sua derivazione da tulle, da petit cul o da cul cul, il cui significato, tradotto in italiano, è “sederino”. Già Théophile Gautier distingueva tra l’abito da lavoro delle ballerine, e quello che viene utilizzato in scena. L’abito da lavoro consiste in una gonna corta di mussola bianca o di satin nero, un corsetto di basino, delle calze di seta bianche, e un calzoncino di percalle che arriva fino al ginocchio e sostituisce il maillot, che s’indossa soltanto in teatro.
8ad05cfa-937f-4410-acbb-8b674336c2bbSi possono distinguere due categorie di tutù, quello romantico e quello tardo-romantico (o classico).
Il primo è costituito da una gonna la cui lunghezza varia dal ginocchio alla caviglia. Tale gonna è solitamente vaporosa e più morbida del gonnellino del tutù tardo-romantico. Le tinte utilizzate sono, generalmente, molto tenui, adatte a opere romantiche e sognanti.
Durante tutto il secolo il tutù si accorcerà sempre più, permettendo alle gambe di mostrare una tecnica in continua evoluzione, anche se in alcuni momenti storici riprese moralistiche imporranno lunghezze più caste. Così, il tutù tardo-romantico, denominato anche “classico”, viene concepito come una gonna la cui lunghezza non supera quella del ginocchio, ma può anche avere un gonnellino corto, rigido, generalmente di tulle, che forma un disco vaporoso sopra le anche della ballerina. Resta piatto, rigido a girovita, quasi parallelo alla linea del pavimento e lascia le gambe del tutto scoperte. In questa tipologia di tutù, le tinte possono essere tenui, ma possono raggiungere anche colori molto accesi e brillanti.
Le eventuali variazioni vengono determinate, nel limite del possibile, dai gusti dei ballerini e dalle esigenze degli scenografi, infatti in entrambe le tipologie di tutù, la foggia varia al variare della scenografia.
La vera origine delle punte, invece, non è ancora conosciuta, ma il loro uso viene introdotto già nel 1813 da Geneviéve Gosselin e in seguito da Fanny Bias. Gergalmente chiamata chausson (“scarpina”), si tratta di un modello speciale di calzatura usato dai ballerini, che permette loro di muoversi sulla punta dei propri piedi. Questo modello è solitamente indossato dalle ballerine, ciò nonostante anche i ballerini lo indossano per determinati ruoli, come la sorellastra in Cenerentola o Bottom nel balletto Sogno di una notte di mezza estate. È nel XX secolo che diventano calzature esclusivamente femminili: la tecnica definita en pointe richiede che il piede si alzi da terra scaricando il peso sulla punta, di conseguenza nasce la necessità di un paio di scarpe capace di facilitare questo movimento, operato per donare maggiore grazia e leggerezza alla ballerina. Intorno al 1820 molte ballerine iniziano a sperimentare nei vari balletti questa tecnica: l’apoteosi e la definitiva affermazione si avrà poi nel 1832, quando Maria Taglioni salirà in punta ne La Sylphide, facendone una sorta di protesi che prolunga il corpo della ballerina e la innalza verso l’alto, come una figura angelica.
e7665518-2b9f-4b75-a64f-022e13ef33cfFu il grande tenore Adolphe Nourrit (1802-1839) che suggerì a Filippo Taglioni di creare una coreografia rifacendosi a Trilby ou Le Lutin d’Argail, racconto romantico di Charles Nodier incentrato sull’impossibile e fatale amore tra un essere umano e una creatura soprannaturale. Taglioni, dunque, sulle musiche di Jean Schneitzhoeffer, allestì un vero capolavoro coreografico. Era il 12 Marzo 1832 quando Maria Taglioni (1804-1884), figlia di Filippo e della svedese Edwige Sofia Karsten, debuttò all’Académie Royale de la Musique (Opéra) di Parigi, nel ruolo della silfide. La Réunion, allora, inaugurò un successo di critica e di stampa senza eguali e ipotizzò – come avrebbero fatto presto tutti gli altri giornali – una nuova era della danza. Nella romantica atmosfera scenografica realizzata da Cicéri, Maria Taglioni impersonò lo spirito di una silfide innamorata di un mortale, James. A cingere “Maria piena di grazia” (come la definì Gautier) un ampio e vaporoso costume bianco di mussola semitrasparente ideato dal costumista Eugéne Lami, che le giungeva sotto il ginocchio, con una cinta azzurro-cielo, le piccole ali diafane di tulle dipinto, una ghirlanda sui capelli à bandeaux, che incorniciava il viso in languide chiome acconciate morbidamente lungo le gote e raccolte “a tenda” dietro la nuca e le sue scarpine da punta. James spera nell’amore di Effie, ma riceve una strana visita: mentre dorme sulla sua poltrona gli appare una creatura alata, la Silfide, che lo bacia. Il giovane, risvegliatosi e turbato da quella visione, invano cerca di afferrarla finché ella non scompare.
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James, quasi incantato, insegue la Silfide nei boschi, lei appare e scompare, in movimenti ecolalici. Una fattucchiera donerà al giovane una sciarpa magica con la quale potrà trattenere la fanciulla, ma nel momento in cui James userà questa sciarpa, la Silfide morirà. La Sylphide inaugurò un genere di balletti popolati da spiriti eterei, consacrando il modello della ballerina aerea, incorporea, lunare. Non a caso, Gautier la definì “una danzatrice cristiana, che resta sospesa come uno spirito in mezzo alla trasparenza della sua mussolina, una danzatrice da paragonare a un’ombra spirituale sotto la cui rosea punta delle dita si piegano ghirlande di fiori celestiali”. Si compie, dunque, una danza che assume nella sua verticalità l’asse ascendente tra la terra e il cielo.
Renata Orlando

Back To The Future – The Musical rinviato al futuro – di Renata Orlando

bttfmusical1L’attesissimo adattamento teatrale del cult cinematografico di Zemeckis, non andrà in scena al West End londinese per il suo 30° anniversario. La DeLorean da palcoscenico va in revisione e, nel frattempo, si gioca a immaginare, tra passato e futuro
A poco più di un anno dalla notizia dell’uscita di Back to the future The Musical, sembra che certe «differenze creative», seppur «amichevoli» abbiano posticipato al 2016 la tanta attesa trasposizione teatrale del film di Robert Zemeckis, prevista in scena al West End Theatre di Londra nel mese in corso.
Secondo il Daily Mail, infatti, il regista britannico Jamie Lloyd (alla guida dei nuovi musical Urinetown e Assassins, rispettivamente in scena all’Apollo Theatre e alla Menier Chocolate Factory di Londra) si sarebbe ritirato dalla produzione a causa di alcuni disaccordi con Bob Gale, co-sceneggiatore del film insieme al regista statunitense.
Il compositore Alan Silvestri – che ha firmato molte delle colonne sonore dei film di Zemeckis, tra cui Forrest Gump (1994) e Cast Away (2000) –  scriverà, comunque, insieme a Glen Ballard (vincitore di un Grammy per Ghost the Musical, 2011) la colonna sonora dello spettacolo. Il musical, inoltre, conterrà anche canzoni conosciute, tra cui The Power of Love, Johnny B. Goode, Earth Angel e Mr. Sandman, facenti tutte parte della trama musicale del film originale.
Nell’attesa, dunque, della revisione della DeLorean da palcoscenico, non rimane che immaginare quelle che potrebbero rappresentare le fonti d’ispirazione dell’intero apparato sceno-coreografico.
Il progresso tecnologico – continuamente in evoluzione anche nell’ambito delle arti dello spettacolo – potrebbe unirsi a nuovi quadri scenici, rifacendosi a un ricco e affascinante passato. Facile ricordare, infatti, la relazione corpo/macchina nell’arte del movimento del XX secolo, a partire dal “Manifesto della danza futurista” di Marinetti del 1917 o, ad esempio, la danza classica del maestro russo Victor Gsovsky nella capitale tedesca tra il 1926 e il 1936 e, ancora, alla danza libera di Rudolf Laban dalla Germania weimeriana all’industria inglese degli anni ’40.
coreografia_GsovskyLa danza, come è noto, ha infatti affascinato protagonisti del Futurismo, come Depero e Marinetti: avendo interrotto i rapporti con l’estetica tradizionale ne rifiutava l’armonia e la simmetria del gusto classico. Il corpo veniva colto in posizioni esterne agli schemi accademici, totalmente disarmoniche, giocava sull’opposizione e sul contrasto delle forze. L’obiettivo di Marinetti era, infatti, il potenziamento ginnico tramite l’imitazione dei movimenti meccanici per giungere, così, a un “corpo moltiplicato”, facendo «una corte assidua ai volanti, alle ruote, agli stantuffi; preparare così la fusione dell’uomo con la macchina, giungere al metallismo della danza futurista».
Nelle scene e costumi commissionate da Serjej Djagilev a Fortunato Depero nel 1917, in occasione del balletto Canto dell’usignolo, l’intento era quello di ridurre la persona umana a mera forza motrice di costumi-corazza, ispirati alle forme della vita contemporanea. All’architettura floreale e squadrata, l’artista univa costumi variopinti e stilizzati. L’elemento corporeo scompariva sotto involucri geometrici che non davano più spazio a braccia, teste e mani. Questi elementi “scomodi” (che portano alla mente i costumi dada del Cabaret Voltaire) finirono per condizionare le figure di danza, creando effetti extra-ordinari. Léonide Massine, infatti, che era a Roma per il debutto dei balletti di Djagilev al Teatro Costanzi nel 1917, provò a danzare all’interno di queste forme, costituite da fil di ferro e tele smaltate, trasformandosi in una sorta di automa. Lo spettacolo non andò in porto ma Massine utilizzò gli esperimenti fatti con il pittore nella coreografia di Parade (1917).
loie_fuller_danse_du_feuE poi, come non pensare a Mary-Louise Fuller? In arte Loïe Fuller (abbreviazione del suo nome e il termine “l’ouïe”, espressione che in francese indica l’udito), nei primi anni del Novecento, la danzatrice e attrice teatrale statunitense solcò i palchi dei teatri europei e d’oltreoceano, diventando musa ispiratrice degli artisti dell’Art Nouveau che la ritrassero. Una sorta di pittrice della danza, che colorava la scena teatrale con fiori e farfalle variopinte, originate da scatti corporei serpentinati, avvolti da lingue di stoffa leggera illuminate dai riflettori, che hanno trovato il culmine nella sua danse du feu, dove si mostrò al pubblico nel buio, avvolta da colori fluorescenti ed illuminata dal basso attraverso lastre di vetro trasparenti (cui si ispira, tra l’altro, George Melies nel suo cortometraggio Danse du feu o La Colonne du feu (1899), con la ballerina Jeanne d’Alcy).
Gsovsky, invece – proveniente da quella Russia rivoluzionaria vissuta da registi teatrali e coreografi del calibro di Mejerchol’d e Goleizovsky – cercava nuovi tratti di movimento “eccentrici”, a cui si  univa la danza classica del periodo, ormai slegata dalle regole tardo ottocentesche. La sua concezione di corpo/macchina mirava alla massima prestazione dinamica del movimento, con il minimo dispendio di energia muscolare (concezione che, successivamente a Parigi e poi nuovamente in Germania, venne applicata alla danza classica, a suggello di quell’evoluzione del movimento che, nello stesso momento, avveniva negli Stati Uniti per mano di George Balanchine, altro nome-simbolo della coreografia russa).
Nata in Germania agli inizi del ‘900 nell’ambito del “Movimento per la cultura del corpo”, la danza libera di Laban vedeva, invece, la difesa del corpo “naturale” e l’accettazione della tecnologia. Durante la seconda guerra mondiale, dovendo sostituire nella catena di montaggio gli operai in guerra, il danzatore ungherese fu assunto come consulente di ergonomica dalle industrie inglesi per trasformare la mano d’opera femminile in efficienti operaie. Grazie agli insegnamenti della danza libera – che mirava all’esecuzione di ritmi diversi, dunque sia quello naturale del corpo sia quello artificiale imposto delle macchine industriali – le nuove operaie riuscirono a salvare la produzione, dimostrando contemporaneamente l’enorme potenziale applicativo della nuova danza.
Chissà, dunque, che tutti questi importanti elementi del passato, non siano già fonte d’ispirazione per il management del musical del film di Zemeckis? Non rimane che fissare un appuntamento per il futuro.
Renata Orlando
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